di Menuccia Nardi
Alcuni giorni fa, il 19 giugno per l’esattezza, è morta Koko, un bellissimo esemplare di gorilla femmina noto in tutto il modo per avere imparato il linguaggio dei segni. Si è spenta nella riserva della Gorilla Foundation, in California, dove ha vissuto per gran parte della sua vita.
Oggetto di studio per il suo quoziente intellettivo alto (tra 75 e 90, ho letto), per la sua capacità di comunicare con i segni (un linguaggio semplificato che le consentiva di esprimere a gesti circa 1000 parole inglesi e appreso grazie alla dottoressa Francine Patterson), Koko è stata una star – forse inconsapevole – per tutta la sua vita: due copertine del National Geographic, quell’amore quasi materno per gatti, e l’incontro con Robin Williams (si racconta che quando apprese della sua morte abbia espresso a gesti la parola “piangere” e abbia inclinato la testa).
Non sono uno scienziato e non so onestamente quanto sia importante capire se un gorilla assomiglia o meno ad un uomo e in che misura: so che quel gorilla, nella sua unicità di essere vivente, mi ha colpita. Perché conosceva i segni? Perché riconosceva le parole? La mia simpatia per Koko va oltre: mi piaceva perché quel gorilla è riuscito a dimostrare a gesti cos’è l’empatia, quella capacità di creare un filo emotivo che lega lo sguardo di due essere viventi, pur nella loro diversità. È lei che lo ha insegnato a noi, che viviamo in un’epoca in cui non ci guardiamo negli occhi ma ci inviamo dei selfie; che non abbiamo necessità di segni per dire ciò che proviamo, perché abbondiamo di emoticon che lo dicono per noi; che spesso non riusciamo ad esprimerci bene né a gesti né a parole per il timore di essere fraintesi… e poi scopriamo osservando un gorilla che capirsi, in realtà, è una cosa semplice. Grazie Koko!
dal blog https://inostriocchisulmondo.wordpress.com/