Bloccate le uscite fino a fine mese per decisione europea. Colantuono, capitano del Pesce Volante: “Eravamo pronti a ripartire, ora rischiamo il collasso. Se non arrivano i ristori, andremo a Roma”.
Barche ormeggiate, reti ammassate sui pontili e striscioni che sventolano nel vento del porto. “Fateci lavorare” e “Non siamo invisibili” si legge sulle fiancate dei pescherecci. Ad Anzio, come in molti altri porti del Tirreno, la rabbia dei pescatori esplode dopo l’improvviso prolungamento del fermo pesca, che li costringe a restare a terra per un altro mese. Dietro quei cartelli c’è una categoria allo stremo, fatta di piccoli armatori, padri di famiglia e lavoratori del mare che da settimane aspettano ristori che non arrivano. “Non possiamo campare d’aria”, dicono. E la protesta cresce, pronta a spingersi fino a Roma.
Un fermo che si allunga e un decreto che blocca tutto
Il fermo biologico nel Tirreno era previsto dal 1° al 30 ottobre 2025, come stabilito dal Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare per le imbarcazioni con reti a strascico e attrezzi simili. Il provvedimento, comune a diverse regioni costiere — Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna — serve a permettere il ripopolamento delle specie ittiche e tutelare l’ecosistema marino. Ma quest’anno, a due giorni dalla ripartenza, un nuovo decreto ministeriale ha prorogato lo stop fino al 30 novembre, dopo una segnalazione della Commissione Europea secondo cui l’Italia avrebbe superato le giornate di pesca autorizzate. La decisione ha colto di sorpresa l’intero comparto. Nessuna compensazione immediata, nessun ristoro disponibile. E così, centinaia di imbarcazioni sono rimaste in porto, mentre le famiglie dei pescatori si trovano senza entrate per il secondo mese consecutivo.
La voce dal porto: “Pronti a manifestare a Roma”
“Eravamo pronti a tornare in mare dopo il fermo, ma ci hanno bloccato di nuovo. Ci dicono che abbiamo sforato le giornate di pesca, ma noi qui rischiamo di chiudere. Abbiamo famiglie, dipendenti, mutui. Chi ha sbagliato paghi, o ci permettano di riprendere il lavoro.” A parlare è Lorenzo Colantuono, capitano del peschereccio Pesce Volante, uno dei portavoce della marineria di Anzio. Il suo sfogo riassume la tensione che serpeggia tra i moli. Da giorni le cooperative locali si riuniscono per decidere il da farsi: una delegazione è pronta a partire per Roma, dove i pescatori intendono far sentire la propria voce davanti alle sedi istituzionali. “Non vogliamo elemosinare ristori — spiegano — ma ottenere rispetto. Se lo Stato non è in grado di compensarci per le perdite, ci lasci almeno tornare in mare.”
Un settore strategico ma dimenticato
Secondo le associazioni di categoria, il prolungamento del fermo rischia di avere ricadute pesantissime sull’economia costiera. Nel Lazio, il comparto della pesca a strascico dà lavoro a centinaia di persone tra marinai, armatori, meccanici navali e commercianti legati all’indotto ittico. “La sospensione delle attività senza un piano di sostegno immediato – avvertono le cooperative – significa mettere in ginocchio intere comunità che vivono di pesca da generazioni.” Il malcontento, intanto, si allarga anche ad altri porti del Tirreno e del Sud, dove si teme che lo stop possa essere ulteriormente prorogato fino a dicembre.
Il silenzio del mare come simbolo di una crisi più grande
Ad Anzio, il mare oggi è immobile, e quel silenzio vale più di mille parole. Dietro ogni barca ferma ci sono storie di uomini abituati alla fatica e alla dignità del lavoro, che ora si sentono dimenticati dallo Stato. “Non chiediamo privilegi, ma solo di poter lavorare”, ripetono i pescatori. E mentre il governo studia un possibile piano di compensazioni, il tempo scorre, le spese aumentano e la pazienza finisce. Se nei prossimi giorni non arriveranno risposte concrete, la protesta potrebbe sbarcare nella capitale. E allora, da Anzio a Roma, il grido del mare rischia di farsi sentire forte — come un’onda che non si può più fermare.
E.V.


