Si viaggia, si sogna, ci si colora di avventure e si infrangono le regole del disegno base; si graffia il foglio, si “corre” fuori dai bordi, si calca troppo con la mina sbagliata e sembra che la gomma per cancellare non svolga mai il suo compito fino in fondo. Rimane sempre qualche traccia dell’errore. Nel film che vi presento questa settimana di errori ne sono stati commessi pochi, pochissimi, anzi quasi nessuno; è un capolavoro. Sembra che durante la visione di questo lungometraggio lo spettatore rimanga ipnotizzato cercando di capire se il regista è pazzo o semplicemente un genio. Proprio come i professori di Gaudì ammonivano il loro studente. E’ uno di quei film dai fondali dipinti che ci fanno immergere in una favola nascosta sotto la coltre di un thriller. E’ davvero difficile definirlo. Della durata di 99 minuti, a tantissimi colori, distribuito dalla Fox Searchlight Pictures, co-prodotto da Germania ed Inghilterra, ispirato dagli scritti di Stefan Zweig e diretto da Wes Anderson, “The grand Budapest Hotel” è uno dei migliori film dell’anno.
Cominciamo dalla trama: il tutto ha inizio con una ragazza che si avvicina alla tomba di uno scrittore divenuto famoso per aver scritto il suo romanzo più popolare; romanzo che parla dell’hotel più bello del mondo. Situato nella Repubblica immaginaria di Zubrowka, uno Stato alpino europeo, il Grand Budapest era, inizialmente, un rifugio per tutti coloro che necessitavano di riposo a cinque stelle. Il libro dell’Autore, scritto nel 1968, parla del suo viaggio all’interno dell’Hotel oramai caduto in disgrazia; dopo della guerra la struttura ha perduto la sua originaria maestosità. Dopo aver conosciuto l’anziano proprietario, Zero Mustafa (F. Murray Abraham) quest’ultimo decide di invitarlo a cena per raccontargli la storia dell’albergo e come ha fatto a diventarne il proprietario. Il racconto ha inizio nel 1932 durante gli ultimi giorni di gloria dell’hotel, quando, da ragazzo, cominciò a lavorare all’interno della struttura ricoprendo il ruolo di Lobby Boy proprio nel momento in cui la Repubblica di Zubrowka era sull’orlo della guerra. Il suo capo è il consierge Gustave (Ralph Finnies) che, oltre ad occuparsi delle esigenze della ricca clientela, intrattiene anche rapporti “eccezionali” con alcune delle anziane ospiti della struttura. Una di queste è la Signora D. (Tilda Swinton) con la quale Gustav trascorre la sua ultima notte prima della fine della vacanza. Un mese dopo viene informato che la Signora D. è morta in circostanze poco chiare lasciandogli in eredità il famoso quadro di inestimabile valore “Il ragazzo con la mela“. Questo evento fa infuriare la famiglia della defunta, che, a nome di suo figlio Dmitri Desgoffe (Adrien Brody) lo accusa di averla uccisa allo scopo di ereditarne la fortuna. Gustav, uomo integerrimo, con l’aiuto di Zero ruba il quadro, scappa dalla villa e lo nasconde al Grand Budapest dove verrà successivamente arrestato dopo una breve fuga. Grazie all’aiuto della sua fidanzata Agatha, una pasticcera, Zero riesce a far evadere il suo “Padrone” dalla galera. E’ qui, miei cari, che comincia il “fantastico viaggio”.
Ci troveremo di fronte ad altri inseguimenti e ad altri personaggi cardine che saranno i protagonisti di un gioco di riflessi che darà filo da torcere a chi conosce il tocco di Anderson. La regia è perfetta, il montaggio è sublime e la colonna sonora è pregna di ricercatezza. Ripeto, la trama è ininfluente rispetto al piacere che si prova guardando il film; se avete visto “The Royal Tenenbaums” capite di cosa sto parlando. “The grand Budapest Hotel” è un film che sembra un cartone animato, è una favola raccontata con gli occhi di un adulto che si trasformano in quelli di un bambino, è la gioia della ricercatezza delle forme e dei colori, è la voglia di sperimentare e di unire le inconfondibili inquadrature, è lo spessore di tutti i suoi personaggi complici e stralunati, è l’unicità di un uomo che ha creato un mondo parallelo al nostro riscuotendo tanto apprezzamento quanto merita di avere. In (sotto) fondo a tutto questo c’è l’amarezza ebraica legata al sentimento austriaco di inizio secolo. I drammi sono ben presenti ma paradossalmente nessuno di essi è realmente vivido durante la narrazione. L’ironia della sorte in questo caso ha avuto la meglio, un’ironia che pochi sanno mettere sullo schermo. Wes Anderson lo ha fatto. Quindi, che ne dite di scollare quel sedere dalla sedia e di andare incontro ad un po’ di sano ottimismo culturale, estetico e fortemente caratterizzato?