Se controlliamo alla voce “innamoramento” scopriamo che l’argomento è stato trattato in modo più o meno specifico da molte personalità tardo ottocentesche che hanno però fatto capolino anche nel Secolo Breve appena terminato: facciamoci un regalo, ovvero una carrellata informativa take away: secondo Freud l’amore deriva direttamente dalla pulsione sessuale e muore con l’estinzione di essa. Sopravvive solo quando la sessualità è “sublimata”, (cioè controllata) e il rapporto si riempie di fattori estrinseci: gli affetti, il mutuo soccorso e la stima; secondo Jung, invece, l’innamoramento è un processo di crescita, di maturazione e di arricchimento che viene prodotto grazie al ricongiungimento con la propria anima. Dunque l’innamoramento non è solo un insieme di emozioni, di sensazioni o di percezioni, ma “un complesso processo in cui due individui entrano in relazione, si trasformano e creano una nuova società e un nuovo progetto di vita. Esso è perciò un processo complesso in cui vi sono delle tappe obbligate come il raccontarsi reciprocamente tutta la propria vita per fare in modo che l’altro possa conoscerla e capire come lui ha visto il mondo”. Certo, queste sono (solo) teorie, cosa ben diversa è metterle in pratica. Per essere competitivi sul mercato non basta avere una faccia carina e una buona cura dell’igiene dentale, bisogna cercare di capire ogni singola variazione del circostante, essere attenti al minimo fruscio ormonale e stare in attesa fino a che il momento giusto non arrivi. E se poi non arriva? Beh, ecco, sinceratevi di non indossare mai una camicia a quadri e dei calzini a righe. Di colori diversi. Contemporaneamente. Il film di cui vi parlo questa settimana parla di amore, di innamoramento, di stasi, di vita reale e di un’attesa ormai in piedi da troppo tempo; è la storia di una donna il cui passato preme sul suo ventre imprigionandola nelle insicurezze e nella convinzione che la (sua) vita sia finita laddove è cominciata la fase “altra” dell’esistenza. Della durata di centoundici minuti, a colori, prodotto dagli Stati Uniti d’America, diretto e sceneggiato da Jason Reitman, “The Labor Day” è la storia di Adele (Kate Winslet) una madre single, divorziata e depressa che soffre di agorafobia; un giorno (davvero come tanti altri) viene convinta da suo figlio pre-adolescente Henry ad accompagnarlo al supermercato dove potrebbe superare le sue paure sociali. E’ proprio all’interno del supermercato che il ragazzo viene avvicinato da un uomo (Josh Brolin), ferito al torace, che gli chiede aiuto. Dopo le rapide presentazioni i due decidono di portarlo a casa per garantirgli le cure necessarie. Solo successivamente scoprono che, in realtà, l’uomo è un evaso di galera e che da quel momento loro due si ritroveranno ad essere contemporaneamente ostaggi e complici. Dapprima molto spaventati ma allo stesso tempo rassicurati dai modi gentili e premurosi dell’uomo, dopo solo qualche giorno i tre cominciano a vivere una vita normale, fatta di piccoli gesti e di piccoli confronti; come dire, iniziano a comportarsi come una vera famiglia. Ahimé rimane sempre il problema che la polizia lo sta cercando, ma è talmente grande il sentimento che lui prova per Adele, ricambiato oltretutto, che ogni giorno non è mai l’ultimo e che ogni ora sembra sempre essere allungata da un altro minuto.
Adele ricomincia a sorridere protetta dall’uomo che era convinta non arrivasse più. Fin qui il tutto è molto romantico, lo è ancor di più quando i due decideranno di scappare in Canada spinti dalla passione e dalla voglia di cominciare una nuova vita; una vita che nell’arco di cinque giorni ha preso corpo e ha germogliato. Vittima e carnefice si sono innamorati e il loro innamoramento è puro, sincero. Di appartenenza. Non posso dirvi come andrà a finire, diciamo che il “tutto” dipende da che punto di vista guardate questo lavoro e che la morale potrebbe cambiare per ognuno di voi. Per quanto riguarda la scheda tecnica non si può negare che Jason Reitman sia un fiore all’occhiello del nuovo cinema americano, dopo aver realizzato film come “Juno” e “Thank you for smoking” ogniqualvolta che in sala è presente un suo film lo si va a vedere senza preoccuparsi troppo di quello che gli occhi andranno ad anagrammare. Quando il talento registico è unito all’indiscutibile bravura degli attori, beh, cari miei, non si può certo dire che non varrebbe la pena andare al cinema. La regia è delicata, lenta, sinuosa, rispetta gli attori e garantisce una copertura fino ai titoli di coda. Quello che si mette bene in evidenza collegando mentalmente le immagini passate con quelle presenti (e che Reitman ha sempre cercato di sottolineare) è che non esistono grandi verità, ma solo quelle piccole microscopiche realtà che ognuno di noi vive quotidianamente, senza ambire a nulla, senza sperperare più parole di quanto non sia necessario e senza pretendere dagli altri cose che non vorremmo mai avere per noi stessi. Insomma “The Labor Day” non è un film leggero ma allo stesso tempo rende “sollevati”, sollevati da quella questione insoluta che mi (e ci) attanaglia almeno una volta alla settimana: siamo noi a non essere parte integrante di questo mondo oppure è questo stesso mondo che ci offre le possibilità e siamo noi che le accantoniamo facendo finta che non esistano? La gente comune, le case comuni e le situazioni comuni si incastrano durante tutta la narrazione con le storie di quelle stesse persone che non sono diventate nessuno e a quelle dei “giardini” che probabilmente avrebbero avuto bisogno di più manutenzione nei mesi passati. Tutto si concatena al fine di ricercare quella verità nascosta adagiata sotto le apparenti spoglie della delusione. Certo, si denota un forte decadimento durante la visione, ma come detto prima non è mai definitivo, non è mai contagioso, anzi, verso la fine, e non sto facendo spoiler, è come se si volesse conoscere davvero quel che viene dopo, prima dei titoli di coda, oltre la fine ed oltre la finzione che finzione proprio non è.
Capirete il perché. In conclusione, e come sempre in estrema sincerità, “The Labor Day” è un ottimo prodotto cinematografico che rispetta tutte le regole del buon cinema: poche nudità, dialoghi essenziali e personalità complesse, intricate e dolcemente aggressive che, pur essendo state temprate dall’incessante passare del tempo, non hanno mai perso la voglia di vivere. Né tanto meno quella di innamorarsi. Andate (ora) a leggere Freud, o meglio, fatelo dopo aver visto il film, sono sicuro che la persona a cui avete pensato per tutto questo tempo, in fin dei conti, non è altri che una piccola pedina in mezzo alla grande combinazione della vita. Fate la vostra mossa, non è ancora detta l’ultima parola. Come detto durante l’introduzione, di tipi di innamoramento ce ne sono tanti, questo film ne delucida uno, o due. E il vostro qual è? Sicuramente ne avrete sotterrato uno lungo il perimetro del giardino che costeggia la vostra verità.