Nella sentenza n.25608 del 3 dicembre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che una mera svista commessa dal dipendente nell’espletamento delle proprie mansioni, priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro e/o per terzi, non giustifica il licenziamento.
La vicenda da cui è scaturita la pronuncia in commento è quella che ha riguardato il dipendente di una banca, licenziato per un errore commesso nella contabilizzazione di un addebito conseguente ad un’operazione di prelievo in contanti di 2.000,00 €.
Decidendo sull’impugnativa del recesso proposta dal lavoratore, sia il Tribunale di Pescara che, successivamente, la Corte di Appello di L’Aquila ne avevano rigettato la domanda, dichiarando legittimo il licenziamento disciplinare.
Il dipendente aveva quindi adito la Cassazione, prospettando, tra l’altro, violazione e falsa applicazione degli artt.1 della Legge n.604/1966 e 7 dello Statuto dei Lavoratori per avere i giudici dell’appello ravvisato una giusta causa di licenziamento nella mera svista colposa, scaturita da un errore nella digitazione del numero di un conto corrente (10/6859 anziché 10/6958), a causa della quale aveva addebitato il prelievo in contanti di 2.000,00 € di un cliente sul c/c di un altro.
Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto fondata la predetta censura.
Nella premessa, gli ermellini hanno ricordato che, in virtù di quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, “per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo” (1).
Quello appena evidenziato, è un principio al quale, nel caso di specie, la Corte territoriale aveva mancato di attenersi.
Nell’accertare la proporzionalità fra illecito disciplinare e sanzione applicata il giudice dell’appello, infatti, aveva valutato soltanto il grado di affidamento implicato nelle mansioni svolte dal ricorrente ed i suoi precedenti disciplinari, senza alcun apprezzamento dell’assenza di danno per l’istituto di credito o per taluno dei suoi correntisti od approfondimento in ordine all’intensità dell’elemento colposo.
Secondo la Suprema Corte, l’affermazione contenuta nell’impugnata sentenza circa il particolare grado di affidamento richiesto dalle mansioni di cassiere, per quanto in linea di principio esatta, non esimeva, però, il giudice di merito dal compiere un concreto apprezzamento della vicenda, in particolare, per quel che atteneva all’esistenza o meno di danno e all’elemento soggettivo che aveva connotato la condotta addebitata in sede disciplinare.
Volendo procedere diversamente, infatti, qualsiasi svista o lapsus, solo perché attribuibile ad un cassiere di banca, si convertirebbe in giusta causa o giustificato motivo di recesso, surrettiziamente trasformando ogni errore nell’espletare tale tipo di mansioni in una sorta di oggettivo e predeterminato criterio di applicazione della sanzione espulsiva.
Nei fatti, la condotta oggetto di contestazione si era configurata nella mera svista del lavoratore che, operando al terminale, aveva sbagliato nel digitare il numero di conto sul quale addebitare un’operazione.
Si era trattato, in sostanza, di un errore causato da una pura e semplice difformità tra un movimento, un’azione o un’affermazione elaborata a livello psichico e la sua concretizzazione motoria o verbale, difformità riconducibile alla sfera del controllo degli impulsi nervosi e/o dell’inconscio, piuttosto che alla colpa propriamente intesa in senso disciplinare/giuslavoristico, e che non aveva messo in discussione neppure le competenze esigibili nei confronti del lavoratore adibito a determinate mansioni.
Nell’accogliere il ricorso, la Suprema Corte ha dunque osservato che “non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento una mera svista commessa dal lavoratore nell’’espletamento delle proprie mansioni e priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro e/o per terzi”.
1) – cfr, per tutte, Cass., Sentenza n.7394/2000;
Dott. Valerio Pollastrini
Consulente del Lavoro
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