Quando gli illeciti commessi nel privato giustificano il licenziamento

Nella sentenza n.776 del 19 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che la condanna in sede penale per fatti non attinenti al lavoro può legittimare il licenziamento del dipendente.

Il caso di specie è quello che ha riguardato un lavoratore adibito alle attività di gestione, deposito, affidamento del credito, intermediazione bancaria, nonché al trasporto e alla consegna di posta, posta pregiata, assegni e carte di credito, licenziato in seguito alla sentenza penale che lo aveva condannato per i reati di usura ed estorsione.

In riforma della decisione emessa dal Tribunale del primo grado, la Corte di Appello di Napoli aveva ritenuto illegittimo detto recesso.

Nello specifico, la Corte territoriale aveva osservato che, avuto riguardo delle circostanze concrete, i reati suddetti non potessero interrompere il vincolo fiduciario necessariamente intercorrente fra datore e prestatore di lavoro.

A detta del giudicante, i rilievi avanzati dall’azienda, in merito alla continua disponibilità di posta pregiata da parte del lavoratore ed al discredito sofferto a causa della condanna penale di questi, apparivano formulati in modo generico.

In particolare, la Corte di Appello aveva escluso l’incidenza dei fatti realizzati dal dipendente in ambito extralavorativo, attese la durata ultraventennale del rapporto, la mancanza di precedenti disciplinari e l’ambito ben delimitato in cui i reati erano stati commessi.

Contro questa sentenza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando che la Corte del merito avesse ignorato l’idoneità dei fatti, accertati definitivamente dal giudice penale a carico del dipendente, a ledere il legame fiduciario necessariamente intercorrente tra datore e prestatore di lavoro, specie considerando “la natura dell’attività svolta e la potenziale destabilizzazione dell’ambiente lavorativo”.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto fondata detta doglianza.

Con una premessa di carattere generale, gli ermellini hanno ricordato che anche una condotta illecita estranea all’esercizio delle mansioni del lavoratore subordinato può assumere un rilievo disciplinare, poiché il dipendente è assoggettato, non solo all’obbligo di rendere la prestazione, bensì, anche agli obblighi accessori di comportamento extralavorativo, tale da non ledere né gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro né la fiducia che, in diversa misura ed in diversa forma, lega le parti di un rapporto di durata.

Una simile condotta illecita, però, comporta la sanzione espulsiva soltanto quando presenti caratteri di gravità, che debbono essere apprezzati, tra l’altro, in relazione alla natura dell’attività svolta dall’impresa.

Sul punto, la Suprema Corte ha proseguito sottolineando che, se, per le aziende svolgenti un’attività puramente privatistica, alcuni comportamenti illeciti posti in essere dal lavoratore possono essere considerati non di gravità tale da giustificarne l’espulsione, al contrario, possono ledere irreparabilmente il legame fiduciario ed il connesso requisito di affidabilità tipico di un rapporto di lavoro costituito per l’espletamento di un servizio pubblico, ancorché in regime giuridico privatistico.

E’ infatti noto che l’attività dello Stato o degli Enti Pubblici, intesa a soddisfare pubblici interessi, può essere svolta attraverso attività costituenti diretta manifestazione dell’autorità della pubblica amministrazione, che si trova in posizione di supremazia nell’interesse generale della collettività, oppure attraverso un’attività privatistica, caratterizzata dalla posizione di parità del soggetto che opera per la soddisfazione dell’interesse pubblico e soggetti collaboratori, ovvero fruitori del servizio.

Quest’attività privatistica può essere svolta, come avviene spesso per il servizio postale, mediante la costituzione di società con capitale prevalentemente o totalmente pubblico.

Tuttavia, l’impegno di capitale pubblico e la pubblicità del fine perseguito, che sottomettono l’attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt.3 e 97 della Costituzione, non sono senza riflesso nei doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, che debbono assicurare affidabilità nei confronti del datore di lavoro e dell’utenza anche nella condotta extralavorativa.

Al termine di questa premessa, la Cassazione, tornando sul caso di specie, ha precisato come la condanna definitiva per usura ed estorsione ostasse al proseguimento del rapporto di lavoro con l’agente postale e che, pertanto, il giudice dell’appello aveva errato nell’esprimersi in senso contrario, così obliterando la peculiarità del lavoro reso si in regime privatistico ma per l’espletamento di un servizio pubblico.

Dott. Valerio Pollastrini

Consulente del Lavoro

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