Nell’Ordinanza del 2 febbraio 2015, il Tribunale di Milano ha affrontato l’annosa questione della compatibilità dello stato di malattia del lavoratore subordinato con l’eventuale svolgimento di attività ludico-ricreative.
Nel caso di specie, una lavoratrice aveva convenuto in giudizio l’azienda, chiedendo al Tribunale di accertare e dichiarare la nullità e/o illegittimità, ovvero di annullare, il licenziamento intimatole con lettera del 17/21 gennaio 2014.
La donna, assunta dalla convenuta nel 1993 con la qualifica di Quadro, era stata licenziata a seguito della lettera di contestazione disciplinare del 4/10 gennaio 2014, nella quale il datore di lavoro, riferito di avere appreso che la predetta fosse solita partecipare a maratone ed avesse praticato sport anche durante alcuni periodi di assenza per malattia, aveva addebitato alla ricorrente di avere “artatamente simulato (e lo sta facendo tuttora) uno stato di malattia, o per almeno ne ha dolosamente enfatizzato i sintomi, al fine di indurre in errore il medico di base e ottenere certificati idonei a dimostrare l’effettiva sussistenza e gravità della malattia, ovvero la sua incompatibilità con la prestazione lavorativa”.
Nella stessa comunicazione, inoltre, l’azienda aveva contestato alla ricorrente “di avere partecipato a due competizioni (15 aprile 2012, Maratona di Milano, 20 ottobre 2013 Laurens Triathlon Sprint Femminile) quando era assente per pretesa malattia, gareggiando durante la fascia di reperibilità mattutina, e di essersi allontanata dal suo domicilio, durante la fascia di reperibilità, anche in data 15 e 17 dicembre 2013”.
Nel costituirsi in giudizio, la società convenuta aveva sostenuto che:
– l’asserita malattia della ricorrente non era incompatibile con l’espletamento della normale attività lavorativa, avendole consentito di svolgere attività fisicamente e mentalmente molto più impegnative;
– la ricorrente aveva effettuato una pesante attività di allenamento prodromica alla partecipazione alla Maratona di Milano, ponendo a rischio e ritardando la sua guarigione.
Di contro, la dipendente aveva eccepito l’infondatezza degli addebiti e la natura ritorsiva del licenziamento, deducendo che il recesso le sarebbe stato irrogato a seguito del suo rifiuto di rassegnare le dimissioni, richiestele dalla società nel dicembre 2011.
Investito della questione, il Tribunale milanese ha premesso l’infondatezza della doglianza relativa alla pretesa natura ritorsiva del licenziamento. La ricorrente, infatti, aveva sostenuto che nel corso dell’incontro tenutosi il 5 dicembre 2013 i rappresentanti della datrice di lavoro le avevano richiesto di rassegnare le dimissioni e che, stante il suo rifiuto, la società aveva posto in essere ai suoi danni condotte vessatorie e di dequalificazione.
Sul punto, il Giudice ha osservato come, dallo stesso tenore delle allegazioni di cui al ricorso, appare evidente, però, che l’eventuale carattere ritorsivo non deve essere attribuito al licenziamento predetto, ma, al più, alle condotte di dequalificazione oggetto di altro giudizio pendente avanti al medesimo Tribunale.
Sia dalla lettera di licenziamento che dalla preventiva contestazione disciplinare emerge, infatti, che il provvedimento espulsivo era stato disposto per sanzionare l’inesistente stato di malattia e le condotte tenute dalla lavoratrice durante il periodo di degenza.
Ciò chiarito, il Tribunale ha, tuttavia, ritenuto il ricorso fondato con riferimento alla insussistenza della giusta causa del recesso.
A tale proposito, il Giudice ha ricordato che gli illeciti contestati alla lavoratrice erano due:
– avere simulato la malattia;
– essersi assentata dalla propria abitazione nelle fasce orarie di reperibilità.
Con riferimento al primo e più grave addebito, il CTU medico legale ha rassegnato, anche sulla base della relazione del medico psichiatra che lo ha coadiuvato nell’accertamento, le seguenti conclusioni:
– “… è possibile ritenere compatibile il vissuto delle condotte così come riferite con lo stato di malattia dichiarato”;
– “non emergono estremi per ritenere che la dipendente abbia artatamente simulato uno stato di malattia, o che ne abbia dolosamente enfatizzato i sintomi, al fine di indurre in errore i medici che, a vario titolo si sono occupati della lavoratrice, col fine di ottenere certificazione atta a rilevare una condizione di inidoneità ovvero di incompatibilità con la prestazione lavorativa”.
In sostanza, l’espletata Consulenza Tecnica d’Ufficio ha confermato sia l’effettivo stato di malattia della ricorrente, che l’insussistenza delle supposte condotte simulatorie o di aggravamento dei sintomi e di ritardo di guarigione.
A proposito, invece, dell’altra condotta oggetto di contestazione, vale a dire l’assenza della lavoratrice dalla propria abitazione per partecipare a due eventi sportivi, il Tribunale ha rilevato come un simile comportamento configuri, ai sensi del C.C.N.L. di riferimento, un illecito disciplinare punito con la sola sanzione conservativa.
Alla luce delle considerazioni predette, pertanto, il Giudice adito ha concluso dichiarando l’illegittimità del licenziamento e, conseguentemente, la condanna della convenuta a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato o in altro equivalente, nonché alla corresponsione di una indennità commisurata alle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, in misura non superiore a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziale ed assistenziali per l’intero periodo.
Dott. Valerio Pollastrini
Consulente del Lavoro
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