I 60 anni di Bruno Conti, il campione di Nettuno con il cuore da ragazzo

È stato ‘er Core de Romà quando Francesco Totti andava ancora alle elementari, ma Bruno Conti continua ad essere un idolo del popolo giallorosso anche adesso che compie 60 anni, tra pochi giorni, il 13 marzo. Perché certi amori non si dimenticano mai, è impossibile riuscirci anche se quel numero 7 è stato uno di coloro che sbagliarono un rigore nella notte più amara della storia romanista. Il Liverpool è qualcosa che fa ancora male, ma Bruno Conti rimane il volto felice, e le lacrime a dirotto dello scudetto del 1983 e dell’Italia campione del mondo a Madrid nel 1982, quando lui era l’uomo dell’ultimo passaggio «e bastava solo spingere la palla in porta», come disse Paolo Rossi. Ma la sua vittoria più bella MaraZico, soprannome di 33 anni fa che gli è rimasto ‘appiccicatò, l’ha forse ottenuta adesso quando dice che «me ‘vojonò bene pure i laziali», un riconoscimento meritato per l’ex ragazzo di Nettuno che il pallone strappò al baseball («ci sapevo fare, mi volevano in America a Santa Monica, mio padre disse no») e che è sempre stato un campione anche di sincerità, disponibilità simpatia. Il successo e il denaro non lo hanno  cambiato, è rimasto ‘Brunettò, figlio di operaio («mio papà Andrea ‘malatò per la Roma») e nell’animo ancora ragazzo come ai tempi in cui, prima di essere preso dalla società dei suoi sogni, venne scartato dal Mago Helenio Herrera, che giudicò troppo piccolo, e inadatto al calcio, quello ‘scricciolò alto appena 1.65 ma che con il sinistro già pennellava magie. Ha avuto la soddisfazione di essere indicato da ‘O Reì Pelè come il miglior giocatore di Spagna 1982, toccò il cielo con un dito quando vinse nella notte del Bernabeu, annientando la Germania Ovest, ma rimase un campione di modestia. «Subito dopo il fischio finale di Italia-Brasile a Barcellona – è il ricordo ‘mondialè di Paulo Roberto Falcao -, Bruno venne da me per scambiare la maglia e aveva l’aria quasi più triste della mia, mi disse che mi capiva e che gli dispiaceva per me. E non dimenticherò mai l’omaggio che mi fece l’anno dopo, quando per celebrare lo scudetto prima di Roma-Torino fece entrare in campo uno dei suoi figli vestito con la maglia della Selecao brasiliana. Conti è stato il compagno della Roma con cui più mi sono identificato, dentro e fuori dal campo. Aveva la tecnica di un calciatore sudamericano, e a volte era difficile convincerlo a non fare un dribbling in più. Faceva sparire il pallone ai difensori avversari».

Spontanea era anche la sua intesa con Roberto Pruzzo («spesso bastava uno sguardo per capirci», racconta il Bomber), nata ai tempi in cui giocavano insieme nel Genoa e Gigi Simoni consegnò per la prima volta a ‘Brunettò quella maglia numero 7 che divenne il suo marchio di fabbrica. Per questo se la prese così tanto con Sven Goran Eriksson che, dopo averlo messo ai margini, lo rimise nella formazione di Trigoria dandogli però la casacca con il 6. Forse perchè il calcio dei piedi buoni non era quello ideale dello stratega svedese, che infatti non capiva nemmeno il genio pallonaro di un altro fenomeno come Toninho Cerezo. Bruno Conti è stato amato dalla gente della Roma fin dai tempi in cui dava spettacolo nella Primavera di cui facevano parte anche Agostino Di Bartolomei e Francesco Rocca, che al Tre Fontane richiamava quasi più gente della prima squadra all’Olimpico. Erano i tempi di Musiello e poi Sperotto, meglio allora seguire quei ragazzi precursori del calcio all’olandese. Ritiene la moglie Laura «il premio più bello della mia vita», ha avuto la soddisfazione di vedere il figlio Daniele arrivare in serie A e diventare una bandiera, anche se nel Cagliari. Il nipote Bruno («il mio sosia») lo ha fatto invece piangere, davanti alla tv, quando è entrato in campo per abbracciare il padre e festeggiare un gol. Ma oltre alla famiglia, nei suoi pensieri c’è spesso un’altra persona: «Nils Liedholm – dice -: è stato la vita mia…». E anche, proprio come Bruno, qualcuno che resterà per sempre nei cuori di chi ama la Roma e il calcio.