a cura di Serena Ientile
Con riferimento al patrimonio condominiale – come individuato dall’art, 1117 c.c. – si pone il problema di comprendere quali siano le prerogative spettanti ai condomini in ordine alle “cose” in esso ricomprese, delle quali i partecipanti sono, appunto, comproprietari pro indiviso.
La particolarità di tale patrimonio consiste nel fatto che i beni e gli impianti che ne fanno parte sono, come visto, “funzionalizzati” a favore delle porzioni di piano esclusive. Infatti, si è più volte detto che, per interpretazione consolidata, le cose comuni sono legate da vincolo di accessorietà alle proprietà private, vale a dire sono poste a loro servizio, utilità od ornamento.
Ne deriva, in rapporto alle facoltà spettanti ai condomini, che le parti comuni devono essere utilizzate in conformità con dette specifiche funzioni di servizio, utilità e ornamento, con ciò conformando anche i diritti e i doveri riferibili ai soggetti che “partecipano” all’edificio.
In altri termini, i comproprietari del patrimonio condominiale subiscono dei limiti nelle loro prerogative e nelle loro facoltà che derivano sia, come è normale, dalla contemporanea sussistenza di altri contitolari, sia dallo scopo per cui il loro patrimonio esiste.
Pertanto, il singolo condomino non potrà utilizzare il bene o l’impianto senza tener conto del concorrente diritto degli altri, ma anche, e soprattutto, ignorando la precipua finalità per la quale la “cosa” è presente nell’edificio.
Di una siffatta impostazione si trova fonte diretta nella legge che pone le regole relative al godimento che i condomini possono fare dei beni e degli impianti comuni.
in tale prospettiva, va detto innanzitutto che le norme di riferimento per la regolamentazione dell’utilizzazione dei beni e degli impianti comuni non sono contenute nella parte del codice civile dedicata al condominio (artt. 1117 – 1139), ma in quella dedicata alla comunione ordinaria e (pacificamente) applicabile alla nostra fattispecie in virtù dell’espresso richiamo contenuto nel predetto art. 1139 c.c.
L’articolo interessato è il 1102 c.c. che pone alcune “regole generali” applicabili a qualsiasi “cosa” comune, e che possono essere sintetizzate nei seguenti principi:
– ciascun condominio ha diritto di utilizzare la cosa comune;
– nel godimento della cosa deve rispettare la specifica destinazione oggettiva del bene/impianto;
– non deve impedire il pari uso degli altri comproprietari;
– ciascun partecipante ha diritto anche di modificare la cosa comune, a condizione che rispetti i predetti divieti.
Naturalmente, le regole dell’art. 1102 c.c. si applicano all’utilizzazione dei beni e degli impianti individuati mediante l’applicazione dell’art. 1117 c.c. e, quindi, identificati in forza del suo meccanismo di funzionamento che, come visto, si basa su una “presunzione” di condominialità, e non riguarda in alcun modo le proprietà esclusive e le loro pertinenze, la cui utilizzazione è regolata dall’art. 1122 c.c. per il quale “ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio”, nonchè dalle altre norme che il codice prevede in generale per l’utilizzazione del patrimonio privato (si pensi, per esempio, alle regole sulle distanze legali ove applicabili) – artt. 873 c.c. ss. – o sulle immissioni moleste – art. 844 c.c.).
Dal punto di vista soggettivo, però, occorre precisare che la normativa sull’uso delle cose comuni è applicabile, come riconosce un’interpretazione consolidata, non solo ai condomini, ma anche ad altre tipologie di “abitanti” dell’edificio, quale il conduttore/inquilino della proprietà esclusiva che – rispetto alle regole dell’utilizzazione – deve considerarsi nella stessa situazione giuridica del condominio (Trib. Roma 9 gennaio 2009, n. 255; Cass. 3 maggio 1997, n. 6108; Cass. 17 aprile 1981, 2331).
Alle regole di legge, però, vanno aggiunte anche quelle risultanti dal regolamento di condominio. Infatti, secondo l’art. 1138 c.c., quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci,deve essere formato un regolamento che preveda, tra l’altro, norme circa l’uso delle cose comuni. Quindi, è ammessa la possibilità che accanto alle suddette regole contenute nell’art. 1102 c.c., per l’utilizzazione delle cose comuni vi siano anche quelle del regolamento.
Detto ciò, tuttavia, occorre svolgere un’importante precisazione: l’ambito di operatività del regolamento è differenziato e dipende direttamente dalle sue specifiche e concrete caratteristiche (Cass. 27 giugno 1978, n. 3169; Cass. 24 aprile 1975, n. 1600).
Si ritiene, infatti, che:
– l’ipotesi “ordinaria” di regolamento, cioè quello assembleare, in quanto approvato a maggioranza, può incidere sulle modalità di utilizzazione, ponendo una contenuta modifica delle relative regole (di legge), non potendo prevedere limitazioni alle prerogative dei singoli (Cass. 18 aprile 2002, n. 5626; Cass. Sez. Unite, 30 dicembre 1999, n. 943; Cass. 21 gennaio 1985, n. 2089);
– mentre nel caso del regolamento avente valore contrattuale, cioè quello costituente un vero e proprio “contratto” e, quindi, approvato all’unanimità dei partecipanti al condominio, è possibile prevedere delle vere e proprie limitazioni ai poteri di godimento spettanti a ciascun condomino, in virtù della predetta approvazione totalitaria (col consenso di tutti gli interessati) e della pacifica disponibilità dei diritti interessanti all’accordo.
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