di Menuccia Nardi
Dovete sapere che sono un’appassionata di almanacchi: che trattino di eventi storici o anniversari o curiosità varie non ha importanza, li leggo. E consultandone uno ho notato che oggi, 19 giugno, è l’anniversario della morte di James Matthew Barry. E qui immagino già l’espressione di molti di voi, con reazioni a mo’ di Don Abbondio nei Promessi Sposi: «Carneade, chi era costui?»… ma in chiave più moderna (del tipo «e mo’ questo chi è», «sì, conoscevo uno che si chiamava James, ma che fosse Matthew Barry non sono sicuro!»). Infatti ai più questo nome probabilmente dirà poco o nulla, e ammetto che anch’io ho dovuto fare un attimo mente locale, segno di come spesso tutti noi tendiamo a ricordare molto più facilmente le opere piuttosto che il loro autore. Curioso.
Già, perché questo signore, J.M. Barry per l’appunto, nato in Scozia nel 1860 e morto il 19 giugno dell’ormai lontano 1937, è l’autore di una delle fiabe più celebri di tutti i tempi, tanto famosa da influenzare non solo la fantasia dei suoi molti lettori, ma anche il teatro, il cinema, fino ad arrivare alla psicologia moderna. Il titolo originario dell’opera fu “Peter e Wendy”, ma tutti la conosciamo come “Le avventure di Peter Pan”.
Quanti non ne conoscono la storia? Se tra di voi ne esiste qualcuno lo voglio conoscere, solo per togliermi lo sfizio di vedere uno che è vissuto fino ad oggi come un anacoreta sui monti. Sì, perché posso anche credere che qualcuno non abbia letto la fiaba (la lettura purtroppo è uno sport poco praticato), ma se anche fosse non può non aver mai visto un film dedicato a un ragazzino vestito da folletto, o non può non aver mai sentito parlare di sindrome di Peter Pan – lo dobbiamo, per inciso, al dottor Dan Kiley, autore, nel 1983, di “La sindrome di Peter Pan, uomini mai cresciuti”. Questa la conoscete tutti di sicuro (e oserei dire che molti ne sono anche affetti, pur senza saperlo o senza volerlo ammettere): è l’atteggiamento tipico di chi si rifiuta di affrontare le responsabilità dell’età adulta, e si rifugia in atteggiamenti da eterno bambino. Non so se Barry, all’esordio della sua fiaba, fosse cosciente del vaso di Pandora che stava per aprire, ma tant’è… E senz’altro siamo tutti pronti a fare lunghi elenchi di gente che conosciamo o che abbiamo conosciuto in passato che di questa sindrome ha fatto un alibi o uno stile di vita, un po’ come Homer dei Simpson. Eppure vi confesso che oggi, io che forse sono affetta dall’opposta sindrome di Wendy (sempre pronta a fare da crocerossina e ad accollarmi qualunque responsabilità), non me la sento di mettere giù il carico da novanta contro gli eterni bambini che anche a me è capitato di incontrare. Ma a chi non piacerebbe ogni tanto rifugiarsi sull’isola che non c’è? In fondo un viaggio ogni tanto non farebbe male a nessuno, salvo il giorno dopo vestire nuovamente i panni di Wendy. Se riuscissi vorrei farlo anch’io, ma chi come me è cresciuto presto ha dimenticato la strada. Peccato, vorrei conoscerla… Per oggi mi consolo ascoltando Edoardo Bennato e mi rifugio in una sua canzone del 1980, L’isola che non c’è. Tranquilli, è un rifugio momentaneo. Torno presto.