Da i “Racconti di Porto d’Anzio”: Avventura di un ragazzo di bottega
Durante le vacanze estive i miei genitori mi mandavano a fare il ragazzo di bottega nella pescheria degli zii in piazza Garibaldi. Alle due di notte mi alzavo per andare a smistare il pescato fresco destinato ai clienti di Roma e dei Castelli Romani. I corrieri addetti al trasporto caricavano il pesce sull’autobus, oppure lo portavano nella capitale con il primo treno, quello delle cinque del mattino. Dopodiché, per il commercio al dettaglio, aiutavo a preparare il banco del pesce, un’ampia lastra di marmo bianco posta all’esterno del negozio, che si affacciava direttamente sulla piazza. Il pesce veniva tolto dalle cassette di legno e lo si adagiava in modo da procurare un effetto scenico e un colpo d’occhio che attraeva i clienti. Grande risalto veniva dato alla preparazione dei frutti di mare, trecce di cozze veraci adagiate tra i limoni, vongole, lupini, fasolari, tartufi, cannolicchi e datteri, per i quali ancora non era vietata la raccolta.
Il banco della vendita era una bellezza a vederlo con merluzzi, mazzancolle, scampi, gamberi rossi, palombo e ricciole al taglio, saraghi, spigole, dentici, aragoste, razze, pannocchie, scorfani, squadri, polpi, seppie e calamari, tutto pesce locale che in quegli anni brulicava nel nostro mare grazie al fermo forzato della pesca dopo la guerra, che aveva consentito a molte specie di riprodursi.
La vendita veniva svolta dalle zie Chiarina, Anna ed Elisa, sporadicamente dagli zii, mentre noi ragazzi passavamo gran parte della giornata nel retrobottega a eviscerare pesci. Verso mezzogiorno e mezza le donne andavano a casa a preparare il pranzo e noi riordinavamo e pulivamo il negozio. Mettevamo le cozze invendute in sacchi di iuta che poi caricavo in bici, per andare a immergerle sull’estremità del molo e farle così mantenere fino alla prossima esposizione sul banco della pescheria.
Un giorno, durante una calda estate di agosto, superata in bici la Capitaneria di Porto vidi tre ragazze in costume che urlavano e si disperavano davanti ai magazzini delle Maestranze Portuali, all’altezza del moletto dove oggi i pescherecci fanno rifornimento di carburante. Non capivo cosa stesse accadendo ma pedalai più velocemente possibile per raggiungere le giovani. Una volta lì mi dissero che per rinfrescarsi un loro amico diciottenne si era tuffato nelle acque del porto, dove allora era possibile fare il bagno, e non era più riemerso. Misi giù il sacco con le cozze, accantonai la bici e senza pensarci due volte mi tuffai vestito nel punto che m’indicarono le ragazze. Nonostante fossi senza maschera, scorsi la sagoma del giovane nell’acqua torbida e lo afferrai, ma per il peso non riuscii a portarlo in superficie. Proprio in quel momento passò sul molo il pescivendolo Peppinello che andava anche lui a immergere le cozze e che immediatamente si tuffò per soccorrere il ragazzo. Lo tirò su, lo issammo sul moletto afferrandolo sotto le braccia e lo adagiammo a terra. Quando provammo a rianimarlo ci rendemmo conto che non c’era più nulla da fare. Così mentre le ragazze urlavano e piangevano disperate, io corsi alla Capitaneria di Porto per avvisare il comandante dell’accaduto. Lui si recò sul posto insieme a due marinai e constatò la morte del giovane, che fu adagiato e coperto con un telo in attesa delle autorità competenti, sotto la croce bianca del Muro Innocenziano, installata qualche anno prima dai padri missionari. Il comandante fece salire le ragazze sulla sua auto e le accompagnò a recuperare le loro cose.
Tornai a casa sconvolto, informai mia madre della tragedia, saltai il pranzo e andai a riposare. In seguito seppi che il giovane faceva parte di un gruppetto di ragazzi arrivati qui in corriera dal Piglio per passare ad Anzio un’allegra giornata al mare.
Questo racconto, pubblicato con l’autorizzazione dell’autore, è tratto dal libro “RACCONTI DI PORTODANZIO ” di Ciro Spina, edito dall’Associazione Culturale 00042