L’autocertificazione al tempo del COVID-19, riflessioni critiche

di Eduardo Saturno

L’autocertificazione al tempo del COVID-19. Nemo tenetur se detegere (nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità)
Riflessioni critiche di Leonardo Ercoli, docente e avvocato penalista, sul sistema sanzionatorio penale ed amministrativo introdotto in occasione della diffusione del Coronavirus.
Lo scenario emergenziale
Si legge esplicitamente sul sito del Ministero della Salute, ma anche su quello di altre Pubbliche Amministrazioni, che “si può uscire di casa solo per esigenze lavorative, motivi di salute e necessità. Ove richiesto, queste esigenze vanno attestate mediante autodichiarazione, che potrà essere resa anche seduta stante attraverso la compilazione di moduli forniti dalle forze di polizia o scaricati da Internet. Una falsa dichiarazione è un reato”. Il modulo della citata “autodichiarazione”, utilizzato anche dalle Forze dell’Ordine, è scaricabile su vari siti ufficiali della Pubblica Amministrazione e riporta quanto segue: “Il sottoscritto, consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art 495 c.p.) DICHIARA SOTTO LA PROPRIA RESPONSABILITÀ di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio di cui al […] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020 concernenti lo spostamento delle persone fisiche all’interno di tutto il territorio nazionale, nonché delle sanzioni previste dal […] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ 8 marzo 2020 in caso di inottemperanza (art. 650 C.P. salvo che il fatto non costituisca più grave reato). Sui più importanti giornali e telegiornali si riportano notizie di denunce dovute all’ inottemperanza all’obbligo di permanenza nelle abitazioni e alle dichiarazioni mendaci riportate in tali autocertificazioni. Fermo restando che la necessità di stare a casa è dovuta al senso civico e di comunità che deve essere presente in ogni persona al fine di contrastare l’epidemia, il presente articolo vuole far riflettere dal punto di vista tecnico-scientifico sulle criticità degli accertamenti condotti dalle Forze dell’Ordine in virtù, o in forza, della citata autodichiarazione, ovunque presente e citata continuamente dai media.
Il princìpio della gerarchia delle fonti: l’art. 16 della Costituzione Repubblicana e il Decreto del Presidente del Consiglio
La libertà di circolazione e soggiorno è prevista e disciplinata dall’articolo 16 della Costituzione della Repubblica. Essa è una delle più antiche libertà riconosciute nei documenti costituzionali ed è presente già nella Magna Charta Libertatum del 1215 poiché insieme alla libertà personale è considerata un aspetto della libertà individuale. Dal contenuto dell’articolo 16 della nostra Carta Costituzionale si evince la vigenza del princìpio della cd. riserva di legge rinforzata in materia di limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno. Tale princìpio impedisce restrizioni stabilite sulla base di atti aventi natura diversa dalla legge ordinaria. Il nostro sistema di diritto è come una piramide dove all’apice c’è la fonte normativa più importante la Costituzione e man mano che si scende si trovano le fonti subordinate come le leggi, i decreti legge e legislativi, i regolamenti ministeriali tra cui è compreso il Decreto del Presidente del Consiglio. Una fonte subordinata, per il princìpio della gerarchia delle fonti, non può derogare ad una norma di rango superiore. Ad esempio, un Decreto Ministeriale non può modificare, abrogare o derogare una legge. I decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri sono atti di rango secondario – amministrativo e non atti aventi forza di legge e non possono autonomamente promuovere norme. Il Decreto Presidente Consiglio dei Ministri è un atto che non viene sottoposto ad alcun intervento di verifica ponendosi in contrasto con il princìpio di legalità che regola l’equilibrio dei poteri in uno Stato di diritto. La nostra Costituzione prevede solo in caso di guerra, previa deliberazione delle Camere, la possibilità di conferire poteri straordinari al Governo e in ogni caso sempre su delega del Parlamento. Occorre precisare che la nostra Costituzione non consente forzature così palesi delle regole democratiche neppure per un’emergenza. La sola deroga all’ordinario equilibrio tra i poteri dello Stato è il Decreto Legge. La permanenza dell’obbligo di non uscire dalle proprie abitazioni in base a tali atti amministrativi, senza l’intervento di una legge o, quantomeno, di un atto avente medesima forza, come un decreto legge, si pone in netto contrasto con l’art. 16 della Costituzione, il quale prevede che solo atti legislativi possano limitare la libertà di circolazione e di soggiorno. In altre parole, in mancanza di intervento urgente di un atto avente forza di legge, i citati Decreti del c.d io resto a casa potrebbero mostrare seri profili di dubbia legalità e di dubbia aderenza alla Costituzione poiché essa riserva solo alla legge le limitazioni di spostamento e non ad un regolamento.
L’art. 650 codice penale (il provvedimento “legalmente” dato dall’autorità)
La permanenza nelle proprie abitazioni imposta da un atto amministrativo la cui vigenza venisse protratta senza intervento legislativo, potrebbe essere definita come imposta da un provvedimento non legalmente dato dall’Autorità, in quanto collidente con l’art. 16 della Carta Costituzionale. Ciò comporterebbe l’irrilevanza penale dell’inottemperanza; tale interpretazione è confortata da quella giurisprudenza statuente che “non integra la fattispecie [di cui all’art. 650 c.p.] la condotta che abbia riguardo ad un provvedimento che difetti di uno dei requisiti di legittimità sotto i tre tradizionali profili della violazione di legge, dell’eccesso di potere e della incompetenza, richiedendo espressamente la norma incriminatrice che esso sia legalmente dato” (ex plurimis Cass. 12-1-2011, n. 555). Non potrebbe certo dirsi legalmente dato un provvedimento amministrativo che violi l’art. 16 Cost., eccedendo contestualmente i poteri della autorità amministrativa. Rispetto alla sanzione in caso di mendacia delle dichiarazioni, anche essa sarebbe di dubbia applicabilità per quanto concerne, in primo luogo, l’art. 650 c.p., esso recita “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro” Ciò potrebbe portare ad interpretazioni giurisprudenziali tali da ritenere penalmente irrilevante la mera inottemperanza, anche se ingiustificata, all’obbligo di restare a casa, salvo che il soggetto contravventore non sia infetto; in tal caso si potrebbe ricadere in ipotesi dolose (art. 438 c.p.) o colpose (art. 452 c.p.) di delitti contro la salute pubblica che analizzeremo successivamente.
Articoli 495 e 483 c.p. (gli atti devono essere destinati a provare la verità)
Come è detto sopra, i moduli, almeno alla data odierna, riportano l’art. 495 c.p. come norma incriminatrice rispetto alle dichiarazioni mendaci espresse nell’autocertificazione in caso di controlli relativi alla mancata permanenza nella propria abitazione durante la situazione determinata dalla epidemia del Covid-19. Tale richiamo all’art. 495 c.p. è, a parere di chi scrive, assolutamente improprio. L’art. 495 c.p. infatti punisce chi renda false attestazioni o dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla identità, sullo stato o sulle qualità personali proprie o di altri. Orbene, fermo restando che ovviamente la dichiarazione di generalità false è punita in base a tale articolo, di certo una falsa dichiarazione sul “perché si è fuori casa in tempi di emergenza sanitaria” non rientra né nei concetti di “identità”, né di “stato”, né di “qualità”. Difatti l’art. 495 c.p. è posto a tutela della fede pubblica rispetto alla necessità di “identificare” un dato soggetto all’interno della collettività, non a tutela della veracità delle dichiarazioni in sé. Pertanto lo stesso si consuma qualora si dichiarino, ad esempio, generalità false, stato civile falso, gradi accademici diversi da quelli posseduti e via dicendo, non quando si dichiarino, in generale, diverse qualità personali. In tempi remoti fu perfino sostenuto che non integrava tale reato la falsa dichiarazione di aver dimenticato a casa una patente di guida, in realtà mai posseduta (Cass. S.U., 4-5-1968, n. 1). Pertanto, non essendo la mendacia nel caso di specie relativa all’ identificazione personale, ma alla necessità, o meno, di uscire dalla propria abitazione, non appare integrato il reato di cui all’art. 495 c.p. Tale affermazione sembra essere confortata dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, laddove ha statuito che “le altre qualità proprie o dell’altrui persona cui fa riferimento l’art. 495 c.p., sono soltanto quelle che servono a completare lo stato e l’identità della persona ai fini della sua identificazione. Restano perciò, fuori dalla tutela penale le richieste dell’autorità su condizioni personali del soggetto non giustificate da esigenze di identificazione, ma rivolte ad altro fine” (Cass. 16-2-1993, in senso conforme cfr. Cass. 18-12-2012, n. 30190, Cass. 25-5-1984, n. 6751). L’art. 483 c.p. difatti punisce chi attesta falsamente ad un pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. In altre parole vi deve essere un atto pubblico per il quale vi è un “dovere giuridico dell’attestante di esporre la verità stabilito in modo indubbio, esplicitamente o implicitamente, dalla legge regolatrice dell’atto” (Cass. 18-7-2008, n. 33382). Tale dovere, tuttavia, non appare sussistere nel caso di specie. In primo luogo nessuna norma impone una veridicità dell’autodichiarazione de qua.
L’autocertificazione e il divieto di autoincriminazione (nemo tenetur se detegere)
Ritenendo quindi non applicabile l’art. 495 c.p., si ritiene che non possa applicarsi nemmeno l’art. 483 c.p. solitamente applicabile alle “autocertificazioni”, né gli artt. 45, 46, 75, 76 o altri del D.P.R. n. 445/2000. Anche laddove la si volesse far ricadere nelle norme di cui agli artt. 45, 46, 75 o 76 del D.P.R. n. 445/2000, ciò non sarebbe in primo possibile perché si incorrerebbe nel divieto di analogia in malam partem. Non sarebbe altresì possibile poiché i citati articoli del D.P.R. n. 445/2000 si riferiscono ad autocertificazioni da rendere alla Pubblica Amministrazione. La polizia giudiziaria, nell’ambito dei controlli su strada in emergenza sanitaria, non può dirsi Pubblica Amministrazione ai fini del D.P.R. n. 445/2000. Inoltre, nessuna norma impone ad un soggetto fermato dalle Forze dell’Ordine di “autocertificare” alcunché. In caso dovrà essere la stessa polizia a verbalizzare delle dichiarazioni (eventuali) e a dare corso ad indagini. Ma v’è di più. Le dichiarazioni contenute nella “autocertificazione” redatta nei modelli ministeriali non potrebbero essere utilizzate in alcun procedimento penale. Nel nostro ordinamento, si suol dire, “l’imputato ha il diritto di mentire” e ciò vale anche per l’indagato. Corollario di tale diritto è la necessaria presenza del difensore in sede di dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato, altrimenti le dichiarazioni non possono essere utilizzate. Orbene quando si viene fermati dalle forze di polizia per verificare se si è usciti di casa con necessità, o meno, le stesse stanno conducendo una embrionale indagine penale circa una eventuale incriminazione del dichiarante per il reato di cui all’art. 650 c.p., o, eventualmente, circa altri reati. Ciò vuol dire che, anche se la si vuol chiamare “autocertificazione” o “autodichiarazione”, gli operanti ad un controllo stanno assumendo delle dichiarazioni ex art. 350 c.p.p. o, in caso, ex art. 63 c.p.p. In entrambi i casi, qualora la polizia dovesse ravvisare “dichiarazioni indizianti” o comunque in caso di sommarie informazioni da parte dell’indagato, sarebbe necessaria la presenza di un difensore. In assenza della presenza dell’avvocato, quindi, le dichiarazioni “autoaccusanti”, anche se rese in una formale “autocertificazione”, non potrebbero essere utilizzate ai sensi del vigente codice di rito. La c.d. “autocertificazione”, almeno nella versione odierna, richiama gli art. 46 e 47 del D.P.R. n. 445/2000. Tuttavia essi disciplinano, come emerge dalla lettura dello stesso D.P.R., le dichiarazioni rese nei rapporti con la pubblica amministrazione (cosa che non è la P.G. operante) e inoltre sono “sostitutive di certificazioni”(si pensi all’autocertificazione di un titolo di studio o di una qualità personale). Orbene, non si capisce quale “certificazione” prevista dalla legge stia sostituendo colui che, andando al lavoro, a fare la spesa o da un parente malato, autocertifichi il fatto. La risposta è “nessuna” perché nessuna certificazione è prevista dalla legge in tal senso e nessun obbligo di firmare detta autocertificazione è previsto dal nostro ordinamento, né, a giudizio di chi scrive, può essere – ad oggi – previsto, dati i principi costituzionali vigenti in tema di diritto alla difesa e giusto processo. Non solo: in caso di dichiarazione mendace non sarebbero applicabili le sanzioni penali di cui all’art. 483 c.p. (poiché tale autocertificazione non è obbligatoria e non è “finalizzata a provare la verità dei fatti esposti”, come notato dalla Procura di Genova del 16 marzo 2020) né quelle dell’art. 495 c.p. (che, come si è visto, riguarda le dichiarazioni mendaci in tema di identificazione). A giudizio di chi scrive, l’obbligare i cittadini a dichiarazioni “autoaccusanti” o comunque a presentare alla P.G. tale autocertificazione è illegittimo ed ingiusto.
L’art. 4 del D.L. n. 19 del 25 marzo 2020 n.19 (il cambio di rotta dal diritto penale al diritto amministrativo)
Forse anche a seguito di queste voci, il governo, con l’art. 4 del D.L. n. 19 del 25 marzo 2020 ha corretto il tiro, prevedendo, in sintesi, che “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento […] è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità”. In caso di utilizzo dei veicoli la sanzione risulta aumentata ed è ammesso, per espresso richiamo al Codice della Strada, il pagamento in misura ridotta; anche con il “famoso sconto” del 30 % nei primi 5 giorni o in alcuni casi, nelle mani dell’agente accertatore. L’intervento del citato D.L. nel quadro normativo emergenziale di questi tempi ha superato alcune problematiche esistenti causate dal D.P.C.M. che ha esteso all’intero territorio nazionale le misure delle “zone rosse”, ma non ha – invece – escluso ogni criticità, lasciandone viva più d’una. Balza subito agli occhi una prima apparente contraddizione nel “nuovo” sistema sanzionatorio: esso, esplicitamente, esclude l’applicazione dei cc.dd. reati contravvenzionali (quali quello previsto dall’art. 650 c.p.), lasciando il posto alla sanzione amministrativa dal limite minimo di € 400. Nel far ciò, lascia salva l’applicabilità, ovviamente, dei più gravi delitti quali quello di epidemia, che prevedono importanti pene detentive. Escludendo l’applicazione dei reati contravvenzionali previsti “da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità”, esclude l’applicazione dell’art. 260 T.U. leggi sanitarie, salvo poi, cadendo in apparente contraddizione, incrementarne le sanzioni ivi previste, innalzando, nel limite massimo, l’arresto da ” 6 mesi”, a “18 mesi”; anche le sanzioni pecuniarie irrogabili sono state elevate. È cristallina la contraddizione consistente nell’incrementare le sanzioni previste da una norma salvo poi sancirne la non applicabilità. L’unica apparente applicazione possibile dell’art. 260 T.U. leggi sanitarie, per espresso richiamo, è quella in caso di violazione del “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena purché risultate positive al virus”; ciò, salvo che il fatto costituisca più grave reato, come ad esempio la tentata epidemia dolosa, l’epidemia dolosa e, infine, l’epidemia colposa.
Il reato di epidemia art. 438 del Codice Penale
Questi ultimi delitti richiamati sono spesso citati dalla stampa, data l’entità delle pene previste, tra cui, ex multis, l’ergastolo in caso di epidemia dolosa. Tuttavia essi, se venisse confermata, data la scarsa giurisprudenza esistente (non avendo, per nostra fortuna, quasi nessuno diffuso alcuna epidemia in passato in Italia), avrebbero scarsa applicazione pratica.
Questo, poiché non sarebbero applicabili nei confronti di “chiunque, in qualsiasi modo, provochi un’epidemia, come ad es. chi, sapendosi affetto da male contagioso, si mescoli alla folla pur precedendo che infetterà altre persone. Infatti la norma…non punisce chiunque cagioni un’epidemia, ma chi la cagioni mediante la diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche “in vivo”, mentre deve escludersi che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che l’affliggono” (Tribunale di Bolzano, 13 marzo 1979).
Ciò porterebbe all’applicazione del citato art. 260 T.U. leggi sanitarie anche nei casi di chi, con o senza intenzione, uscisse di casa sapendo di essere positivo al virus. Nel caso ciò avvenga con l’intenzione, ossia con dolo, la pena prevista dall’art. 260 T.U. leggi sanitarie appare bassa. Circostanza, inoltre, difficilmente avverabile, tenuto conto del fatto che i tamponi eseguiti in queste settimane sono senza dubbio inferiori – e di molto – rispetto ai soggetti effettivamente contagiati, seppur asintomatici.
La legge 689/1981
Per ciò che concerne la sanzione amministrativa (da € 400 a € 3000) prevista per chi violi il dovere di “restare a casa”, va detto in primis come chi scrive sia senza dubbio concorde nel revirement normativo in quanto il previgente sistema sanzionatorio penale appariva inefficace (si pensi all’oblazione per il reato di cui all’art. 650 c.p. e l’estinzione dello stesso con il semplice pagamento di una esigua somma di 103 euro), oltre che lesivo di numerose disposizioni costituzionali e para-costituzionali. La sanzione amministrativa, invece, sarà immediatamente pagabile in misura ridotta, similmente alla maggior parte di quelle previsti per violazioni al Codice della Strada.
Tuttavia, in caso di mancato pagamento, la sanzione definitiva verrà irrogata dal Prefetto, in applicazione della L. n. 689/1981 disciplinante le sanzioni amministrative ed espressamente richiamata dal D.L. del 25 marzo 2020. Sembrerebbe, da una prima lettura, possibile il solo ricorso immediato al Prefetto e non all’Autorità Giudiziaria; quest’ultima potrebbe essere direttamente adita in caso di atti immediatamente afflittivi (sequestri, fermi amministrativi) che però non sembrano essere possibili nel caso di specie. Ciò premesso, è innegabile che vi siano delle criticità non superate dalla riforma. Innanzitutto, non avendo previsto la norma che il verbale di accertamento non pagato diventi immediatamente titolo esecutivo, le singole Prefetture verranno gravate da vari procedimenti -anche molto lunghi- se il sanzionato, eventualmente dopo scritti difensivi presentabili a seguito della contestazione entro 30 gg. (art. 18 L. n. 689/1981), richieda di essere ascoltato. I Prefetti, secondo la giurisprudenza maggioritaria, avranno 5 anni per irrogare l’ordinanza ingiunzione definitiva del procedimento amministrativo sanzionatorio. Sarebbe stato, forse, più opportuno – al fine della reale repressione – prevedere che il verbale non pagato divenisse, automaticamente, titolo esecutivo (consentendo poi la trasmissione del ruolo e la notifica di cartelle esattoriali). Dal momento che la contestazione deve essere (di norma) immediata (art. 14 L. n. 689/1981), inoltre, non si capisce quali strumenti abbiano a disposizione le ff.oo. sparse per il territorio nazionale per verificare immediatamente – e con ragionevole certezza – la causa e i motivi di uno spostamento. Nel caso di contestazione non immediata, invece, le Forze dell’ordine dovrebbero procedere ad accertamenti (art. 14. L. n. 689/1981), con obbligo di rapporto (art. 17 L. n. 689/1981) al Prefetto a seguito di notificazioni entro i 90 gg. dall’accertamento (art. 14. L. n. 689/1981). La problematica pratica sorge in caso di sospetta dichiarazione mendace del controllato rispetto ai motivi dello spostamento. Difatti gli operanti, insospettiti, dovrebbero in simili casi ottenere elementi probanti la mendacia, poiché la prova della pretesa sanzionatoria, in caso di contestazione, ricade sulla P.A. irrogante la sanzione (ex plurimis Cass. sent. nn. 7296/96, 1122/99, 8515/01, 1912/2019). Orbene, le forze dell’ordine dovranno, citando l’art. 13 della l. n. 689/1981, assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora. In altre parole dovrebbero, per ogni violazione, svolgere una vera e propria indagine ed in caso di perquisizione ottenere la previa autorizzazione della competente Autorità Giudiziaria. È evidente la difficoltà, se non l’impossibilità, dell’accertamento de quo.
Per quanto concerne le decine di migliaia di persone che, secondo quanto riportano gli organi di stampa, sarebbero state denunciate per la violazione del non più applicabile art. 650 c.p. nei giorni passati, i relativi procedimenti penali andranno di certo archiviati (con la ovvia eccezione di chi abbia violato la quarantena sapendo di essere positivo al coronavirus).
Secondo il D.L. 25 marzo 2020 si applicheranno a tali casi gli articoli 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, al fine di trasmettere gli atti alla Autorità amministrativa per l’irrogazione di una sanzione, che viene staticamente determinata in € 200 dal Decreto del 25 marzo 2020. Tale determinazione (inferiore ai 400 euro di sanzione minima previsti dal decreto stesso) è dovuta al fatto che, in base al principio della irretroattività delle leggi, applicabile quanto in tema di sanzioni amministrative, quanto in tema di diritto penale (cfr. art. 25 Cost.), una sanzione maggiore sarebbe stata superiore all’ammenda di € 206 prevista dall’art. 650 c.p. all’epoca “applicato e vigente” e sarebbe stata quindi incostituzionale. Tuttavia tale applicazione predeterminata, “asetticamente”, perfino per casi diversi tra loro e di gravità differente potrebbe – in futuro – comportare pronunzie giudiziali abroganti la sanzione o rimodulanti la stessa, poiché si violerebbe l’art. 3 Cost., nonché i generali principi di uguaglianza e proporzionalità, richiamanti finanche dalle norme comunitarie.
Ciò, poiché tale autocertificazione riporta l’art. 495 c.p. il quale, tuttavia, non si applica assolutamente alle dichiarazioni mendaci in un atto pubblico, ma solo alle dichiarazioni mendaci riguardanti qualità personali relative alla identificazione (nome, cognome, stato civile etc.). Tale assunto è confermato dalla giurisprudenza più attenta oltre che dalla Procura di Genova, espressasi nella già richiamata nota del 16 marzo 2020.
La vicenda merita un’ultima nota prettamente pratica; fermo restando che le sanzioni amministrative – a parere di chi scrive – sono senza dubbio più efficaci (perché toccano il portafoglio) rispetto alle contravvenzioni penali, esse – però – devono pur sempre essere sostenute dai principi costituzionali e comunitari. Sembra, difatti, assai incredibile costringere decine di migliaia di operanti a vigilare sulla corretta compilazione di un modulo prestampato di cui il quisque de populo – probabilmente – nemmeno riesce a comprendere appieno il significato (come a esempio il richiamo al D.P.R. 445 del 2000 o, più propriamente, ai vari atti amministrativi). Sarebbe stato, forse, più logico e costituzionalmente corretto lasciare ai predetti operanti la discrezionalità di richiedere la compilazione o l’esibizione di tale modulo autocertificativo a seconda dei soggetti sottoposti ai controlli e a seguito di una sommaria verifica dello stato dei fatti. Si pensi a quanto avviene comunemente in sede di accertamento del tasso alcolemico: le ff. oo. verificano ictu oculi lo stato psico-fisico del conducente e, in caso di sospetti, procedono agli esami strumentali.
L’attuale situazione, invece, porta a veri e propri blocchi del traffico nei quali le Forze di polizia sono costrette, in modo inquisitorio, a richiedere al cittadino dichiarazioni probabilmente nemmeno utilizzabili nel successivo procedimento amministrativo o in un successivo giudizio penale. In quest’ultimo ambito, infatti, vige il noto principio del diritto alla non auto-incriminazione (da qui appunto il titolo dell’articolo nemo tenetur se detergere), richiamato anche dal quinto emendamento della Costituzione statunitense. Secondo tale principio, non solo l’indagato-imputato può non auto-incriminarsi, ma, soprattutto, può mentire. Diritto platealmente violato dalla nuova “autocertificazione” che impone di dire la verità, anche a discapito dei principi costituzionali.
Si pensi, poi, ai tanti cittadini che sono costretti ad uscire (legalmente) di casa: dai medici ai postini, passando per tutti gli impiegati ai servizi di prima necessità. Il citato meccanismo porta al perverso risultato per cui essi possono essere fermati più e più volte e costretti – ognuna di esse – a sottoscrivere un modulo diverso. Se non fosse vero, penseremmo ad una opera di Kafka.
Un ultimo cenno merita, infine, la procedura di accertamento delle sanzioni amministrative: come già richiamato in precedenza, ci si chiede come possano le Prefetture (e per loro gli Agenti accertatori) verificare se in quel luogo e in quel giorno un cittadino stesse davvero andando dalla madre a portarle la spesa o dal medico per un dolore al collo. È indubbio che la situazione emergenziale richieda disciplina, polso, intolleranza verso i furbetti e, soprattutto, concretezza. Tuttavia chi scrive è fortemente convinto che i nostri principi costituzionali e comunitari ben potrebbero fornire i mezzi giuridici per fronteggiare l’emergenza senza intaccare uno dei Testi normativi primari comunemente ritenuto tra i migliori del mondo, la nostra Costituzione, e senza relegare a mero spettatore colui che (quasi) tutto può: il Parlamento.