Da i “Racconti di Porto d’Anzio”: La pesca del pesce azzurro
Prima della guerra la cattura di pesci come sardine, alici, maccarelli, sgombri, aringhe e altre specie di pesce azzurro, avveniva diversamente rispetto ai metodi moderni. Le macchine e gli attrezzi usati per la pesca, chiamati ‘ngegni dai più anziani, erano all’epoca ancora semplici e rudimentali e il pescato era il prodotto delle braccia e della forza degli instancabili pescatori.
Le imbarcazioni utilizzate erano del tipo bilancetta, volgarmente chiamate manaidi (1) , avevano quattro reti da posta, lunghe novanta metri e alte novecento maglie, sostenute dalle paine, grossi cubi di sughero. Quando la barca raggiungeva la zona di pesca, il commannatore, cioè il capobarca, avvalendosi della propria esperienza stabiliva l’altezza d’immersione delle reti in base alla profondità in cui nuotava il banco del pesce. Il tutto avveniva di notte e senza luce artificiale.
Dopo la guerra le vecchie reti da posta furono sostituite dalle reti di cinta e il commannatore lasciò le manaidi per usare le barche a motore.
Grande importanza assunse il gozzo armato con due o più lampare, grandi globi di cristallo con al centro una calzetta di amianto, alimentate da petrolio in bombole. L’intensa luce, sopratutto nelle notti vicino alla luna nuova, era un richiamo irresistibile per i pesci orientati così a nuotare verso le reti. I marinai che gestivano le lampare riuscivano a regolarsi sulla quantità e la qualità del pesce solo osservando le bollicine che salivano su verso il bagliore della luce.
Prima dell’alba si calavano le reti e quando venivano tirate su, si assisteva allo spettacolo dei pesci che con le loro piccole scaglie brillavano nell’acqua scura e tersa, lasciando una scia di magia. Le pescate potevano davvero essere molto ricche: vi erano imbarcazioni che riuscivano a riempire tutto lo spazio a bordo con migliaia di cassette stracolme di pescetti.
Normalmente la partenza per la pesca del pesce azzurro era la sera e quando le lampare erano a largo, dal porto di Anzio si poteva ammirare un grande spettacolo luminoso, visibile anche a molte miglia di distanza. Se invece la destinazione era più lontana, le imbarcazioni uscivano dal porto nel tardo pomeriggio.
Le secche più importanti per la pesca del pesce azzurro erano quelle di Costaguti, proprio di fronte ad Anzio, quella dello Sperone fuori Foceverde e la secca di Paterno, a Capocotta, passata Torvaianica.
Il rientro delle imbarcazioni avveniva all’alba e i pescivendoli erano già radunati in banchina, pronti all’acquisto e al trasporto del pesce nei mercati di Roma e dei Castelli Romani. Il pescato rimanente, che era la maggior parte, veniva venduto alla ditta Pollastrini in piazza Pia, unica industria di Anzio che eseguiva l’inscatolamento delle sardine, specie quelle al pomodoro, apprezzate e richieste in Europa e negli Stati Uniti.
Il lavoro dei pescatori non terminava con il ritorno nel porto. Dopo aver venduto il pesce sulle banchine si recavano sulla spiaggia a riparare e far asciugare le reti di cotone sopra appositi pali piantati nella sabbia.
(1) Barca bassa a sei o otto remi con una vela e uno scafo lungo e stretto, usata per la pesca di acciughe e sardine.
Questo racconto, pubblicato con l’autorizzazione dell’autore, è tratto dal libro “RACCONTI DI PORTODANZIO ” di Ciro Spina, edito dall’Associazione Culturale 00042