Da i “Racconti di Porto d’Anzio”:
Era una mite notte di primavera dei primi anni Sessanta e la sveglia di mio padre, Sebastiano Spina, suonò poco dopo la mezzanotte, poiché i pescatori s’imbarcavano molto presto al mattino. Dopo aver preso con sé il cibo che mia madre gli aveva preparato, uscì per un caffè al bar da Nana, locale in cui si riunivano tutti i pescatori. Scambiate quattro chiacchiere con gli amici, s’imbarcò con il suo equipaggio sull’Emilio Manlio, la paranza di cui era il capitano.
Fatto scaldare il motore, sciolse le cime di poppa e salpò l’ancora per fare la prima cala a stramazzi, pesca che si faceva a circa dieci miglia dalla costa. La paranza di mio padre, con un motore da centoventi cavalli, impiegò circa due ore per giungere sul posto stabilito e in piena notte mollò la rete per la prima cala che sarebbe durata all’incirca tre ore.
Passato questo tempo, con l’aiuto del verricello, i marinai tirarono su la rete facendola scorrere sul rullo di poppa e la imbracarono per issarla a bordo, accorgendosi però che era troppo pesante. All’interno vi era un grosso oggetto scuro. Pensando che si trattasse di un otre o di una grande anfora romana sferica, la rete fu tirata su a fatica e con molta attenzione, per paura di danneggiare il reperto. Quando il sacco fu aperto tutti poterono vedere l’oggetto metallico con dei fili, che era rimasto impigliato. Mio padre lo fece legare alla fiancata della barca e ordinò subito di rientrare.
Arrivati ad Anzio, i mariani gettarono l’ancora in mezzo al porto e senza ormeggiare in banchina chiamarono la Capitaneria. Saliti a bordo, gli ufficiali di turno, dopo aver analizzato l’oggetto, dissero che si trattava di un residuo bellico della seconda guerra mondiale, una testa di un siluro che conteneva circa trecento chili di tritolo. Immediatamente venne dato l’allarme e la paranza fu fatta uscire dal porto, in attesa degli artificieri. Questi, arrivati sul peschereccio, invitarono mio padre ad avviarsi molto al largo, a circa venti miglia da Anzio. Durante la navigazione l’artificiere maresciallo avvertì l’equipaggio di fare molta attenzione, poiché si era alzato il vento di scirocco, l’imbarcazione beccheggiava e il siluro poteva esplodere al minimo urto. Arrivati sul punto indicato, a circa seicento metri di profondità, il siluro fu imbragato per essere issato e posizionato fuori dalla barca, dando modo così a mio padre di tagliare il cavo e far precipitare il proiettile in acqua, mentre i marinai al timone e in sala macchine dovevano essere pronti a dare tutto il gas possibile per allontanarsi. Si operò con molta cautela per far passare il siluro fuori dalle murate ma un cavo rimase impigliato nella barca. In quegli attimi di panico mio padre, cercando di mantenere la calma, riuscì a liberare l’ordigno, che cadde tra le onde. La paranza si mise a distanza di sicurezza e gli artificieri fecero brillare la bomba con la carica piazzata in precedenza. Si alzò una colonna d’acqua impressionante e tutti tirarono un sospiro di sollievo.
Questa storia è una delle tante accadute dopo la guerra nel mare di Anzio, in cui molti pescatori rischiarono la vita per sfamare le loro famiglie.
Questo racconto, pubblicato con l’autorizzazione dell’autore, è tratto dal libro “RACCONTI DI PORTODANZIO ” di Ciro Spina, edito dall’Associazione Culturale 00042