Con questo racconto si chiude il ciclo dei “Racconti di porto d’Anzio”, pubblicati per 34 settimane dal nostro quotidiano, per questo ringraziamo l’autore Ciro Spina e l’associazione 00042. Riteniamo nostro compito anche quello di far conoscere la storia del luogo nel quale si vive, per chi ci è nato e per chi vi è arrivato in un secondo tempo, crediamo che ciò sia utile a costruire una comunità consapevole. Non mancherà il nostro impegno nel voler tramandare e far conoscere il territorio, le tradizioni gli usi e i costumi, fare memoria di avvenimenti e fatti per noi e per chi verrà dopo di noi.
Il direttore Claudio Pelagallo
Da i “Racconti di Porto d’Anzio”: I ragazzini del dopoguerra
Nel dopoguerra, per incontrare i miei amici, dovevo attraversare molti rioni. Girare soli non era consigliabile e ci muovevamo sempre in gruppo, poiché c’era la possibilità d’imbatterci in altri ragazzi che difendevano il loro quartiere dagli intrusi.
Noi ragazzi conoscevamo tutte le fontanelle di Anzio, sia al centro che in periferia, dove ci dissetavamo quando le uscite duravano quattro o cinque ore e ci divertivamo senza fermarci mai. Tra i giochi, ricordo uno monta la luna, tre tre giù giù, nasconnarella, picca, piastra, picchio mazza e mazzapicchio, il salto alla corda, a cui spesso partecipavano anche le nostre madri e ruba bandiera. Se si rimediava un pallone, si giocava sulla spiaggia di ponente, nei pressi della fontanella della Dea Fortuna o su quella di levante vicino alla fontana dello Speziale. Infine, se eravamo nella pineta, c’era la fontanella della Pretura, in via Aldobrandini, dove si trova ancora oggi.
Di solito l’estate dopo pranzo uscivamo da casa scalzi e in mutande, andavamo al porticciolo ed entravamo in acqua nella zona dei cantieri, in cui c’erano i cumuli della breccia scaricata dai brecciaroli. Con le mutandine in bocca, per non bagnarle, arrivavamo a nuoto sino alla punta del porticciolo e da lì poi ci tuffavamo ripetutamente. Cercavamo di rimanere in acqua il più possibile e ne uscivamo solo quando avevamo le labbra viola e la pelle delle mani raggrinzita. Poi, per asciugarci e scaldarci un po’, ci sdraiavamo al sole appoggiati alle pietre calde del muro del moletto, ma dopo qualche minuto ci rituffavamo di nuovo. Quando il sole stava per tramontare, ci rimettevamo le nostre mutandine asciutte e tornavamo a casa, dove la mamma dal balcone o dalle finestre, urlava a gran voce il nostro nome.
Appena rientrato riuscivo per andare, con il fiasco in mano, dallo speziale a prendere l’acqua fresca, con cui il papà, di ritorno dal lavoro, si sarebbe dissetato. Mio padre faceva il pescatore sulle paranze e io lo aspettavo sul molo al suo rientro al tramonto. Prendevo il pesce pescato e tornavo veloce a casa, dove mia madre mi aspettava per preparare la zuppa per cena e far trovare a mio padre tutto già pronto in tavola.
All’epoca non esisteva la televisione e la sera vicini e parenti venivano per chiacchierare un po’, parlando dei fatti del giorno accaduti a Portodanzio. Dopo aver gustato tutti insieme un bicchiere di Cacchione, con gli amici ci davamo appuntamento per il giorno dopo poiché si era fatto tardi e mio padre doveva alzarsi prima dell’alba.
Questo racconto, pubblicato con l’autorizzazione dell’autore, è tratto dal libro “RACCONTI DI PORTODANZIO ” di Ciro Spina, edito dall’Associazione Culturale 00042