Polvere e dolore, quel che resta della strage della Good Year

Ieri sera all’Oxer di Latina la prima del documentario “Happy Good Year”, sugli ex lavoratori che si ammalarono di tumore nella fabbrica di Cisterna

di Roberta Sciamanna

Se avessero saputo. La chiamavano “mamma Good Year” – appena la fabbrica aveva aperto – perché dava da mangiare a decine di famiglie. Se avessero saputo che oltre a sfamare famiglie, la fabbrica di Cisterna avrebbe dato la morte a più di duecento operai, esposti a sostanze cancerogene nei reparti di produzione degli pneumatici. A loro, ma anche ai lavoratori di tutta Italia – che di fabbriche come la Good Year è pieno lo stivale – è andato il ricordo dei tanti spettatori presenti alla prima di “Happy Good Year”, ieri sera all’Oxer di Latina, nell’ambito della rassegna culturale “Lievito”.

Un momento del dibattito

Una sala troppo piccola, sorprendentemente, per ospitare così tanta gente. Molti in piedi, familiari delle vittime, ex operai, giornalisti, avvocati che seguono il processo. E’ stata un successo la presentazione del film prodotto da Adriano Chiarelli e Luca Piemarteri per la Soulcrime, scritto da Laura Pesino e Elena Ganelli, vincitore del Riff- Rome Independent Film Festival 2014 come miglior documentario italiano. Interviste, riprese dei processi, immagini polverose dello stabilimento dismesso. Polvere e desolazione. Quel che resta di una fabbrica che tra gli anni ’60 e ’70 aveva promesso posti fissi, stipendi, boom industriale, per poi rivelarsi “una bomba chimica”, esponendo i lavoratori a più di cento sostanze tossiche. “I dirigenti sapevano – racconta nel filmato uno degli ex operai, mentre ricorda con le lacrime i colleghi scomparsi – Sapevano tutto e non parlavano. Noi lavoravamo per mantenere le nostre famiglie. E affogavamo nella polvere, in quel fumo nero, era come uscire da una miniera di carbone. Son morti quasi tutti, all’età mia. Io non lo so se c’è ancora qualcuno all’età mia”.

Uno degli ex operai intervistati nel documentario

Lo stabilimento chiuse a Cisterna nel dicembre del 1999. Centinaia di operai si ammalarono di tumore. Nel 2001 la vicenda cominciò ad arrivare nelle aule dei tribunali. Le indagini e i processi stabilirono un nesso tra i decessi per tumore e le condizioni lavorative della fabbrica. Gli ex lavoratori, quelli che ancora combattono con la malattia, non si arrendono e chiedono giustizia. Alcuni dei dirigenti sono stati accusati per omicidio colposo plurimo ma la battaglia nelle aule giudiziarie è ancora in corso.  Tra i protagonisti di “Happy Good Year”, un ex operaio, Fausto Mastrantonio. Si era fatto intervistare dalle autrici.  Aveva raccontato la sua storia. E’ morto poco dopo le riprese. A lui va la dedica finale e il titolo del documentario, come hanno spiegato le autrici. Fausto è morto il primo gennaio del 2013, era l’inizio di un nuovo anno che tutto portò tranne che felicità. In sala ieri sera c’erano anche i due figli. “Rivedere mio padre nel documentario – ha detto uno di loro – è stato un dolore, ma anche una gioia. Ringrazierò non so quante volte Elena e Laura per averlo realizzato. Mio padre è stato divorato dal tumore. Spero che questo filmato arrivi a chi di dovere, e che stavolta ascoltino. Non vogliamo risarcimenti, mio padre non me lo ridarà nessuno. Chiediamo solo giustizia”. La paura per la malattia, i colleghi che giorno dopo giorno se ne vanno, le fasi dello smantellamento, le interviste agli avvocati di parte civile. Un lavoro di denuncia, “Happy Good Year”, e di ricostruzione per non abbassare lo sguardo. “Quello della Good Year  – ha detto Laura Pesino durante il dibattito moderato dalla giornalista del Messaggero Monica Forlivesinon è solo un caso territoriale. E’ la storia dell’Italia, dell’omissione delle responsabilità, di uomini e famiglie che sono state ingannate”.  Volti e storie rimaste nel silenzio, alle quali il documentario torna a dare voce.

Il pubblico in sala

Eravamo partite dalla mera storia processuale – ha detto Elena Ganelli – e ci siamo rese conto che l’aspetto umano di quella vicenda era la parte meno conosciuta. Così abbiamo raccontato una storia umana, i drammi di quelle persone che ancora attendono giustizia”. Giustizia, non fosse altro.