Per dimostrare il mobbing non basta il demansionamento

Nella sentenza n.1262 del 23 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha precisato che, di per sé, sia la dequalificazione professionale che l’illegittimo licenziamento, non sono sufficienti a dimostrare il mobbing.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Venezia aveva respinto il gravame proposto da un lavoratore contro il rigetto, pronunciato dal Tribunale del primo grado, dell’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli il 29 settembre 2003, mentre aveva accolto la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione sofferto nel periodo intercorrente tra il 1° novembre 2002 ed il 29 settembre 2003, rigettando, però, quella per il risarcimento dei danni da mobbing.

Avverso questa sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza, pur riconoscendo il demansionamento patito, non ne aveva tenuto conto ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da mobbing e dell’impugnativa di licenziamento.

In tal modo, secondo il ricorrente, la Corte del merito avrebbe trascurato che la subita dequalificazione professionale, di per sé, dimostrasse il comportamento persecutorio posto in essere ai suoi danni, nonché il carattere strumentale della soppressione del posto di lavoro di responsabile del nuovo Ufficio Marketing, cui era stato assegnato nel luglio 2003. Sul punto, infatti, il ricorrente aveva precisato di non aver ricevuto le necessarie dotazioni degli strumenti di lavoro informatici, il che lo avrebbe costretto a quella sostanziale inattività poi sanzionata dallo stesso giudice dell’appello in termini di riconoscimento del danno da dequalificazione professionale.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato nella parte in cui il lavoratore aveva censurato vizio di motivazione in ordine all’effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

A tale proposito, gli ermellini hanno osservato che, sebbene non sia sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, nondimeno al giudice del merito spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, nel senso che ne risulti l’effettività e la non pretestuosità (1).

L’impugnata sentenza, invece, lungi dall’accertare in concreto la genuinità della scelta aziendale, si era limitata a rilevarne l’insindacabilità nel merito, che è cosa ben diversa.

La Corte territoriale, infatti, aveva erroneamente ritenuto di doversi limitare ad una verifica meramente formale dell’avvenuta soppressione del nuovo Ufficio Marketing ed aveva omesso di sottoporre al doveroso vaglio giurisdizionale la mancanza di idonei mezzi di lavoro a disposizione del ricorrente, unitamente al rilievo che il nuovo ufficio era stato costituito nel luglio 2003, cioè appena due mesi prima di essere soppresso, e che il dipendente aveva patito una dequalificazione professionale già a partire dal 1° novembre 2002: si trattava, in sostanza, di elementi presuntivi potenzialmente sintomatici del fatto che il nuovo ufficio fosse stato creato non affinché funzionasse, ma solo per poterlo chiudere poco dopo avervi adibito il lavoratore.

Sul punto, pertanto, era mancato qualunque apprezzamento che confermasse od escludesse il lamentato carattere strumentale della creazione e della successiva soppressione di tale nuovo ufficio e della mancata predisposizione in esso dei relativi mezzi di lavoro.

In conclusione, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso del dipendente esclusivamente nei sensi sopra chiariti, rigettando, invece, la domanda di quest’ultimo relativa alla condotta mobbizzante asseritamente posta in essere ai suoi danni.

1) – Cass., Sentenza n.7474/2012; Cass., Sentenza n.24235/2010; Cass., Sentenza n.21282/2006; Cass., Sentenza n.21121/2004;

Dott. Valerio Pollastrini

Consulente del Lavoro

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