Nell’Ordinanza n.2048 del 4 febbraio 2015, la Corte di Cassazione ha ricordato che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso.
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Roma aveva rigettato il gravame proposto da un dipendente avverso la decisione di prime cure che aveva respinto il suo ricorso inteso ad ottenere la declaratoria dell’illegittimità del termine apposto al contratto stipulato con l’azienda per l’espletamento del servizio in concomitanza di assenza per ferie del personale a tempo indeterminato.
In particolare, confermando la decisione del Tribunale, la Corte del merito aveva ritenuto sussistente nel caso di specie la risoluzione del contratto per mutuo consenso, atteso il lasso temporale intercorso tra la fine del rapporto di lavoro e la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Sul punto, il giudice dell’appello aveva osservato come, per cinque anni, il ricorrente non avesse avanzato alcuna rivendicazione relativa al rapporto di lavoro e che, anche successivamente all’atto di messa in mora, avesse lasciato decorrere ulteriori tre anni e quattro mesi prima di agire giudizialmente, il che, unitamente ad ulteriori comportamenti e situazioni esprimenti un comportamento valutabile in modo socialmente tipico, doveva interpretarsi quale dichiarazione risolutoria.
Questa decisione, tuttavia, è stata sconfessata dalla Cassazione, che, investita della questione, ha ricordato come “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (1).
La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, pertanto, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (2), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (3).
Ciò premesso, la Suprema Corte ha precisato che tale principio deve essere ribadito anche in relazione al caso di specie, così confermando l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato, in sostanza, sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.
Sul punto, giova ricordare come la giurisprudenza di legittimità abbia più volte affermato, altresì, che la durata del contratto così come l’accettazione senza riserve del TFR da parte del lavoratore sono elementi del tutto “neutri” cui non può essere riconosciuta alcuna valenza indicativa della volontà di sciogliere consensualmente il rapporto.
1) – Cass., Sentenza n.26935 del 10 novembre 2008; Cass., Sentenza n.20390 del 28 settembre 2007; Cass., Sentenza n.23554 del 17 dicembre 2004; nonché più di recente, Cass., Sentenza n.23319 del 18 novembre 2010; Cass., Sentenza n.5887 dell’11 marzo 2011; Cass., Sentenza n.16932 del 4 agosto 2011;
2) – Cass., Sentenza n.23057 del 15 novembre 2010; Cass., Sentenza n.5887 dell’11 marzo 2011;
3) – Cass., Sentenza n.17070 del 2 dicembre 2002 e fra le altre, Cass., Sentenza n.2279 del 1° febbraio 2010;
Dott. Valerio Pollastrini
Consulente del Lavoro
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