Ieri sera, 3 maggio, dopo le 22, non ricordo con esattezza l’orario, in una notte non particolarmente buia né tempestosa, è successo l’imprevedibile: WhatsApp è crollato. Panico.
Inizialmente molti di noi hanno pensato che fosse un problema individuale ed eccoci lì, tutti noi WhatsApp dipendenti (mi ci metto anch’io e so di essere in buona compagnia) a fare prove con il telefono (tipo «riavvio, no, meglio se lo spengo e lo riaccendo»), a controllare la connessione internet («ma a Facebook mi collego, allora non è la connessione») e già mentalmente pronti a rivolgersi il mattino seguente al primo tecnico di telefonia disponibile, ma senza aspettarlo davanti al negozio, direttamente sotto casa, così, tanto per fare il tragitto casa-lavoro insieme e guadagnare tempo. Niente paura. Il problema è stato risolto…quello di WhatsApp, intendo… ma il nostro problema mentale? Proporrei una terapia di gruppo e mi faccio avanti per prima: «Ciao, sono Menuccia e non uso WhatsApp da ieri sera…».
In effetti non stiamo messi proprio bene, e mi sento di dover fare le mie scuse. Chiedo scusa alla mia generazione, che per l’ultima chiacchierata della sera usava il telefono a disco (lo ricordate?), litigando in casa perché fosse libero. Chiedo scusa ai nostri figli, che hanno assistito a scene di pura insanità mentale (tipo spegnere e riaccendere il modem almeno 5 o 6 volte per verificare la connessione Wi-Fi)… E chiedo scusa a me stessa e alla mia intelligenza, a cui forse dovrei più rispetto.
Eppure non eravamo tagliati fuori dal mondo, tutto sommato potevamo tranquillamente usare il telefono per chiamare, ma, detto fra noi, non è la stessa cosa, non è come scrivere, e scrivere un vecchio, tradizionale e ormai dimenticato messaggino non è come scrivere con WhatsApp…Credo che il meccanismo mentale scaturisca dalla doppia spunta che ci dà conferma che il messaggio è arrivato, e ancor più dalla doppia spunta blu che conferma che il destinatario l’ha letto: è come dire che ora so che tu sai, e tu, leggendolo, consapevole della doppia spunta, ora sai che io so che tu sai.
Ma non sarebbe meglio dirsele a voce le cose? In maniera diretta? Istintivamente direi di sì, ma se rifletto solo un attimo dico di no: la voce è un mezzo di comunicazione estremamente più semplice, ma emotivamente più complicato. Scrivere ti consente di terminare un pensiero senza essere interrotto, né dal tuo interlocutore né dai tuoi stati d’animo. È una maschera? Forse. E poi è liberatorio. Mi viene in mente una frase di Cesare Pavese: «È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla». Credo sia vero.
Ne riparleremo ancora, anzi no, ne scriverò, ancora.