Qualche giorno fa, invaso da tutte le notizie sull’assegnazione degli Oscar, mi stavo chiedendo quante pagine di carta stampata (e non) stessero per essere scritte, quanti giornalisti (italiani) fossero attaccati al loro computer nel cuore della notte a cercare di parafrasare un concetto, una battuta, oppure cercare il famoso pelo nell’uovo che puntualmente non arrivava. Eh, sì, tutti i pionieri dell’informazione cinematografica erano ossessionati dall’evento, tutti rigorosamente in maniche di camicia con il loro bel caffé alla mano in preda a scatti nervosi e a refresh continui. Io me ne stavo seduto sul letto a pensare se aggrapparmi a quella massa informe e saltellante oppure discostarmi in modo molto umile per dirigermi verso altri lidi informativi. La scintilla non tardò ad arrivare. E così decisi. Il film che vi presento questa settimana, pur non avendo partecipato alla competizione, pur non avendo riscontrato un successo esclusivo al botteghino e pur non essendo stato (ancora) annoverato tra i mille film più belli di tutti i secoli, nel suo “piccolo” è degno di essere il primo protagonista di questa rubrica. Stiamo parlando di “The Lunch Box” della regista Indiana Ritesh Batra. Co-prodotto da India, Francia, Germania ed America questo lavoro focalizza la sua attenzione sul mondo dei wala, una comunità di circa 5.000 persone che ogni mattina, a Mumbai, raccolgono più di 200.000 pranzi fatti in casa o nei ristoranti appositi, per poi consegnarli ancora caldi ai lavoratori, all’ora di pranzo, all’interno dei dabbawala, tipici contenitori per il cibo d’asporto composti da più scodelle messe una sull’altra e tenute insieme da un gancio metallico. La scena iniziale del film ci porta in una cucina, dove Ila, una moglie, è intenta a preparare uno di questi pranzi destinati a suo marito. Molto attenta a dosare gli ingredienti (ed aiutata da sua zia che vive al piano di sopra), cerca ogni giorno di migliorarsi per poi aspettare le lusinghe del marito di ritorno da lavoro. Consegna tutto all’uomo adibito alle consegne, sicura del fatto che il cibo sarebbe arrivato, come sempre, in orario e in perfetto stato.
In questo caso, però, il detto “mai dire mai” ha una valenza piuttosto veritiera, poiché il meraviglioso “pranzo in valigia” viene consegnato per sbaglio ad un altro lavoratore della grande città, il Signor Fernandez, che, se dapprima non si stupisce del cambio di contenitore, nel momento in cui lo apre si rende conto dell’errore. Tutti i cibi sono ordinati alla perfezione e soprattutto “diversi” da quelli che lui di solito ordinava ogni mese al solito baracchino. Trascorre una giornata lavorativa e a sera, Ila, come sempre, riceve dallo stesso fattorino il contenitore vuoto. Qualcosa, però, non quadra, quando lo apre scopre con sua grande meraviglia che tutti gli scomparti sono vuoti e puliti. Cosa mai successa. La donna, intelligentemente, al ritorno del marito, gli chiede come fosse il pranzo, lui, a mezza bocca e in tono superficiale gli risponde che il cavolfiore era buono. Lei, il cavolfiore, quella mattina, non lo aveva cucinato. Da qui parte la trama e dunque attraverso biglietti nascosti all’interno delle piccole piadine, i perfetti sconosciuti cominciano una corrispondenza epistolare in pausa pranzo. Lei continua a migliorare la cucina per lui che continua a mangiare raccontandole la sua vita. I due protagonisti, contornati da personaggi secondari che completano le loro giornate, raccontandosi in modo molto efficace la loro quotidianità, scoprono di avere, seppur in maniera diversa, le stesse “sensazioni di vita”: lui, vedovo e molto solitario; lei, tradita per un’altra donna e con un padre in fin di vita. Saranno tanti i biglietti che i due si scambieranno, tanti quanto i pranzi che Ila cucinerà per il Signor Fernandez, tanti quanto gli argomenti presi in esame, tanti fino al momento in cui, in un ultimo biglietto decisivo, lei chiede di incontrarlo. Dapprima molto felice per questa notizia, con il passare delle ore, Saajan comincia però a nutrire dei seri dubbi sulla continuazione di questo romantico e culinario rapporto quasi reale. Non è mia abitudine svelare il finale dei film, vi basti sapere che non mancheranno dolci colpi di scena e delicati motivi narrativi. Nutro sempre grandi aspettative dai film che reputo intelligenti. A volte vengo deluso, ma non in questo caso.
Abituati al sensazionalismo di Bollywood, questo film ridimensionerà la nostra opinione sulle (micro) realtà del popolo indiano. Sempre rispettoso, sempre docile, sempre conforme alle regole e alle tradizioni, in questo lungometraggio non solo gli occhi provano piacere, ma anche i pensieri. Non è facile immaginare gli odori, ma durante la visione di questo film è come se aleggiassero nell’aria invadendo il circostante i profumi delle spezie, delle sigarette, delle banane, delle salse e delle polpette. Di tutto un po’ per questo film, che, scartato all’ultimo come rappresentante agli Oscar come Miglior Film Straniero, ha avuto la fortuna di essere stato girato con una qualità non troppo comune: l’umiltà dello sguardo. Tutti i personaggi, dai più presenti ai meno importanti hanno un ruolo ben stabilito e conducono una vita rigorosa e sana. Di sentimentalismo, però, ce n’è poco, non è un film che vi lascerà il cuor leggero.”The Lunch box” ci apre gli occhi su una realtà, come detto poc’anzi, poco osservata; una realtà vissuta da centinaia di migliaia di persone che, in una frenetica vita piena di cose, di case, di carte e di animali, vive parallelamente due aspetti della vita: le passioni e la solitudine. Vivamente consigliato a chi vuole riflettere sul peso delle differenti culture a noi contemporanee.