Lo sguardo penetra; così, all’improvviso, è un qualcosa che non si può evitare, quando sceglie la sua preda non c’è ancora di salvezza che tenga, non c’è scudo emotivo che ci possa mettere al riparo da quello che incessantemente farà il suo corso. Quando lo sguardo arriva e si posa, è impossibile farlo andar via; può capitare dovunque: davanti al bancone delle bibite gassate, nel parco mentre leggete soli su una panchina, in pieno marciapiede dopo aver urtato per sbaglio la spalla di un passante oppure ancora all’interno di un negozio, insomma, lo sguardo è come la comunicazione, è dovunque ma si fa fatica a “vederlo“. Eh, sì, signori miei, se pensate che sia facile ho in serbo brutte notizie per voi. Quando Italo Svevo sosteneva che si vedono meno bene le cose quando si spalancano troppo gli occhi aveva ragione, non andate a cercare quello che non potete vedere, perché quello che volete lo potete osservare soltanto se ricambiati. Gli occhi vanno a “coppia” e gli sguardi si creano sempre in due. Il film che vi presento questa settimana parla proprio di due persone che hanno incrociato le loro strade. Così, all’improvviso. Della durata di centoundici minuti, a colori, di produzione belga, soggetto di Johran Heldenberg e Mieke Dobbels, distribuito da Santine Film e diretto da Felix Van Groningen “Alabama Monroe” è un gran bel film a metà strada tra la passione e il dramma; di quelli che trasformano un sorriso in una smorfia di dolore e di dissenso. Per poi tornare al sorriso. Cominciamo dal principio, anche se in questo caso, e capirete perché, non è facile. Il film è basato sulla storia di Elise (Veerle Baetens) e Didier (Johan Heldenbergh) che incontratisi all’interno del negozio di tatuaggi da lei gestito cominciano a parlare: per Elise “c’è sempre qualcosa nella vita che valga mettere sul proprio corpo”; Didier invece è da sempre innamorato dell’America, che lui identifica come la terra delle infinite opportunità ma soprattutto come la patria del Bluegrass, genere musicale che lui ama e con il quale vive, cantando e suonando in un gruppo. Sarà proprio la passione per la musica a suggellare il loro primo incontro. Ma questo non è l’inizio del film, la narrazione inizia molto tempo dopo il primo incontro dei due, sette anni, precisamente; e così, noncuranti ancora di come i due possano essersi conosciuti, veniamo catapultati all’interno dell’ospedale dove la coppia aspetta di sapere a che stadio è il cancro di loro figlia, che, dopo il compimento del sesto anno di età ha cominciato ad accusare sintomi piuttosto preoccupanti.
Ma torniamo di nuovo indietro cercando di non perdere di vista le cose appena scritte; dunque: Elise e Didier si sono conosciuti, si sono innamorati e hanno deciso di andare a vivere insieme; la passione e il loro essere indomiti e personali li ha fatti avvicinare. La vicinanza, però, costa cara, e quando Else confessa a Didier di essere rimasta incinta pur non sospettandolo, lui non riesce ad essere felice; pur accentando con gioia la notizia, in un futuro momento capirà che quell’attimo di esitazione è stato l’inizio della fine del loro rapporto. Un rapporto messo a dura prova dalla scomparsa di una figlia e dalla conseguente responsabilizzazione di lei nei confronti del suo uomo. Non avrebbero dovuto farlo? Avrebbero dovuto rinunciare? Di chi è stata la colpa e quanti casi di malattia ci sono stati all’interno delle loro famiglie? Come già detto la narrazione subisce notevoli stacchi temporali, ma a differenza di quanto si possa pensare non sono fastidiosi, anzi, mettono lo spettatore in grado di capire, passo passo, l’evolversi e il modificarsi dei caratteri di ognuno dei due protagonisti. Si passa dunque dai momenti in ospedale al primo incontro al negozio di tatuaggi, dalla costruzione della nuova casa al dolore per la perdita di un figlio. Dai concerti pieni di armonia alle infernali litigate in camerino. Dall’etica alla politica, dalla felicità al dramma, dalla spensieratezza alla consapevolezza che quello che si aveva non tornerà più. Bisogna cambiare identità, altrimenti per tutti potrebbe essere la fine; ed è proprio la fine il tasto dolente di questo film, che, mi dispiace dirlo, non sarà tra le più belle che vi abbia mai “raccontato“.
Pieno di (dura) poesia e sceneggiato in modo da risultare comprensibile alle orecchie di tutti, “Alabama Monroe” racconta la vita di due esseri umani, racconta le loro passioni, le loro fragilità, i loro litigi e le loro costrizioni. Vi suggerisco di andarlo a vedere, ma devo avvertirvi che alla “fine“, usciti dalla sala, ricorderete il film non per come lo avete visto, ma per come realmente si presenta. Cosa voglio dire? Non oso neanche immaginare di scriverlo. I due attori principali sono molto bravi e si completano a vicenda, quelli secondari offrono una perfetta cornice per questo lavoro, che, pur avendomi lasciato con le labbra serrate è pur sempre un prodotto degno di essere visto, visibile e degno di considerazione. Perché le immagini, come le parole e come gli sguardi, non possono rimanere solo tali, bisogna coltivarle, educarle e riconoscerle. Il loro potenziale è enorme, bisogna solo saperlo “guardare“.