Questa settimana mi sono imbattuto in un film piuttosto curioso, di quelli che non ti aspettavi, di quelli che ti fanno venir voglia di rivederli subito una seconda volta, di quelli che ti rapiscono e al contempo ti straniano da esso facendoti sentire inabile alla visione; non so come spiegarlo, ma questo lavoro, pur non avendo “nulla di così particolare” che lo metta al di sopra degli altri, è come se si fosse prepotentemente scavato un angolo nella mia personale riserva di celluloide. Prima di introdurvi la trama mi piacerebbe condividere con tutti voi il suo incipit, l’inizio, il monologo con cui ci vengono presentati gli attori: “Robin, guardami, tu mi credi quando ti dico che ti voglio bene? Da quanto tempo dura questa storia, 24, 25 anni, io ci sono sempre stato per te. Sempre, in qualunque situazione. In tutte le tue scelte, le tue paure, le tue ansie, io ci sono sempre stato, tutte quelle tue fughe irrazionali, sempre quando eri nell’occhio del ciclone -per favore Al, tirami fuori di qui, tirami fuori da la, fammene uscire pulita. Senza tagliare nessun ponte, Aaron ha bisogno di me, devo andare.- Ma era solo una scusa. Scelte sbagliate, che sono poi la storia della tua vita, Robin; scelte sbagliate, film sbagliati, uomini sbagliati, amici di cui non potevi fidarti, perfino l’unica cosa che non potevi scegliere, tua madre, una scelta sbagliata anche quella. Avevi tutto Robin, eri una stella a ventiquattro anni, i produttori più importanti ai tuoi piedi. Può darsi che sia stato troppo tenero con te, come dicono tutti. Non lo so, magari è stato davvero così. Ma tu eri una ragazzina e avevi paura, hai sbattuto tutte le porte dietro di te e infranto tutti i nostri sogni. E adesso, adesso…”
Il film inizia con queste parole, dette dall’esterno, da un interlocutore a noi ancora sconosciuto; in primissimo piano troviamo lei, la protagonista, la bionda e ancora bellissima Robin (Robin Wright) che interpreta il ruolo di se stessa “vestendo” i panni di un’attrice che in passato ha avuto una carriera gloriosa e che adesso, adesso, vive all’interno di una base aerea militare statunitense in compagnia dei suoi due figli, Sarah (Sami Gayle) ed Aaron (Kodi Smit McPhee), affetto da una grave malattia alla vista e all’udito. Robin piange mentre la telecamera si allontana dal suo volto allargando il campo visivo, e dopo qualche minuto si stacca presentandoci finalmente la voce “fuori campo“, è quella di Al (Harvey Keitel), suo agente da molto tempo e suo unico “amico“. Al le procura un colloquio con uno dei più importanti dirigenti di uno degli studi Hollywoodiani più prestigiosi: la Miramount (nella realtà Miramax e Paramount). Nessuno sa di cosa si tratti, lo scopriremo solo una volta entrati nell’ufficio di Jeff (Danny Houston), che, con chiarezza e imbarazzante lucidità, le spiega il motivo per cui li ha fatti chiamare: “Alla Miramount ora vogliamo scansionarti totalmente, Robin. Il tuo corpo, il tuo volto, le tue emozioni, le risate, le lacrime, la sessualità, la felicità, la depressione, le paure e i desideri. Noi vogliamo avere un tuo campione completo per conservarti, per fare nostra questa cosa chiamata Robin Wright. Mi servi per quello che sei stata”.
Della durata di centoventidue minuti, a colori, sceneggiatura di Stanislaw Lem, distribuito dalla Winder Films, effetti speciali di Roli Nitzan, girato in tecnica mista e diretto da Ari Folman “The Congress” vi lascerà interdetti dal suo inizio alla sua fine. Robin è ormai troppo vecchia per “bucare lo schermo“, i tempi cambiano e gli studi si tengono al passo con essi, “dopo aver inizialmente rifiutato l’offerta di restare giovane per sempre“, Robin accetta; facendolo, però, deve obbedire alla clausola in fondo a destra: quella di non esibirsi mai più in nessun luogo, mai più. Il suo volto, dopo aver ceduto tutti i diritti per la digitalizzazione della sua persona, non dovrà essere mai più visto in presenza di un pubblico pagante. Al suo posto lavorerà la sua copia virtuale. Improvvisamente, nel giro di uno stacco, o meglio, di un chip, facciamo un balzo di venti anni; il mondo è cambiato e quella che sembrava una rivoluzione è diventato la regola. In questa nuova era “gli esseri umani si drogano per vedere la realtà diversamente, come fosse un film d’animazione, e così assumere l’aspetto che vogliono”.
Robin, nel frattempo, è diventata l’attrice più sfruttata dalla Miramount: invitata (in carne, ossa e cartone animato) al Futurism Congress si prenderà il lusso di dire delle cose che scateneranno una rivolta, quelle stesse cose covate in due decenni di assoluto silenzio. “The Congress” come dicevo all’inizio, non è un film facile da raccontare, e i piedi di piombo non sono mai abbastanza pesanti per quanto riguarda la sua descrizione. Ari Folman, cinque anni dopo l’uscita di “Valzer con Bashir” dimostra ancora una volta la sua passione per il cinema d’animazione. I significati impliciti sono molto forti, quello che forse viene maggiormente sottolineato è il concetto “che la realtà non cambia ma sono le persone che vedono tutto animato in virtù delle sostanze chimiche che assumono a darne diversa percezione, e questo ad un livello tale che nessuno sa più come sia fatta la vera realtà, come si sia ridotto davvero il mondo“. Diciamo che il regista ha avuto una particolare attenzione per quel concetto che in psicoanalisi si chiama “rimozione del passato“. In un mondo popolato da esseri umani che sono esattamente quello che volevano essere non ci sono guerre, litigi o fraintendimenti, ma solo la tranquillità di poter ottenere e poter esser ciò che si vuole. In fondo, però, dove si sta meglio, in un modo fatto di effimere piacevolezze dove tutto è superficiale e coloratissimo, oppure nella vita reale, dove parte della popolazione è rimasta cercando di trovare la soluzione ai propri problemi e senza cedere alla chimica? Non si può tornare indietro dal futuro. A meno che qualcuno non abbia a disposizione un’arma segreta. Il film è un andirivieni di citazioni che spero capirete; all’inizio sembrano passare veloci, compatte e senza nessun bisogno di essere strettamente sorvegliate; ma poi, riflettendoci con attenzione, scopriamo che ognuna di loro ha uno specifico compito, uno scopo, un lavoro da svolgere. Moltissimi sono i personaggi (conosciuti) del passato e del presente inseriti all’interno di questo film, un prodotto cinematografico intenso in cui immagini e parlato sono indipendenti l’un dall’altro ma al contempo creano un connubio unico nel suo genere. Quale genere? Semplice: un ottimo film da andare a vedere. Concludo come al solito con la mia eterna sincerità: fin dal primo minuto non ho avuto dubbi, “The Congress” è un film che vale e che continuerà a valere, per quanto non sia facilissimo ricollegare la miriade di suggerimenti che il regista vorrebbe farci cogliere è un lavoro che prende quanto di più bello le immagini e le parole possano offrire a quel pubblico pagante che spero possiate essere voi. Andatelo a vedere, gli attori sono bravissimi, le inquadrature e il montaggio puliti e la sceneggiatura, come già sottolineato, è bella. Molto. Non so cosa dirvi in aggiunta, sto cercando di trovare qualcosa che smuova in me qualche critica o qualche misera polemica ma non ci riesco. Riconsiderate l’idea che altri mondi sono possibili e andate al cinema ad assistere a questo ritratto di come potrebbe davvero essere la nostra vita tra non più di un paio di decenni solari. E se poteste essere chiunque, chi sareste? Una forte critica alla società realizzata in modo totalmente artistico. Se tutti i registi fossero come Folman, state sicuri che la popolazione (mondiale, virtuale e digitale) avrebbe molte più basi per decidere tranquillamente da che parte stare.