I “magnager” della politica

[sg_popup id=”106217″ event=”inherit”]di Eduardo Saturno[/sg_popup]

Max Weber auspica che la politica non debba considerarsi quale punto di arrivo per opportunisti ma che sia affidata a persone consapevoli e preparate, dotate di accertata professionalità. Egli procede nel distinguere tra politici d’occasione e politici di professione: i primi siamo noi quando mettiamo la scheda nell’urna; i secondi possono vivere per la politica (non hanno necessità di trarre rendite da essa, la praticano con passione e impegno), gli ultimi vivono di politica (sfruttano la politica per costituire a proprio favore delle rendite).

La prima elaborazione concettuale sulla meritocrazia è datata IV secolo avanti Cristo e si deve a un pensatore cinese, Mozi, che non era prettamente colui che si potesse definire un nobile, ovvero un appartenente ad una casta generalmente produttrice di attitudini filosofeggianti, ma un plebeo che aveva risolto a priori il problema della sopravvivenza in quanto costretto a lavorare duramente per supportare il suo sostentamento. Qual era il concetto di Mozi in ordine al merito è presto detto: va consentito l’accesso al potere solo ai virtuosi e ai capaci. E la capacità si acquista sicuramente col talento, ma anche e soprattutto con lo studio e l’applicazione. Dunque non per nascita nobile o a seguito del presunto possesso di facoltà divine. La dottrina filosofica che ne scaturì, il moismo, fece fatica a trovare accoglienza nei regimi imperiali autoritari di quel periodo. Una onomatopeia traversa, il maoismo, avrebbe nel XX secolo ribaltato lo schema, nascondendo dietro il commendevole mito dell’egualitarismo, dell’uno vale uno, una forma di mimesi autoritaristica in linea con le tradizioni dell’imperialismo dei secoli andati.
Mozi, in tutta sincerità, andrebbe riscoperto. Non ricordo in quali termini sia oggi considerato in Cina, ma non sarebbe un sacrilegio se l’Occidente industrializzato si prodigasse nel dare una rispettosa occhiatina ad i suoi insegnamenti. E la questione riguarda anche il nostro Paese, che, peraltro, attraverso i nostri padri ha riassunto nella Costituzione repubblicana un po’ di princìpi moisti.

I pilastri del pensiero di Mozi sono, in sintesi, due: l’accesso alle posizioni di potere ed amministrazione della cosa pubblica deve essere riservato a persone che abbiano virtù morali e capacità attinte attraverso lo studio. Nella Costituzione della quale nell’anno appena trascorso si è festeggiato il settantesimo dalla promulgazione frapposta a tanta retorica e a così poca consapevolezza, quella coppia di valori indicata dal remoto filosofo cinese è scolpita nell’art. 54, che nel secondo comma declina: ” I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore.” Che significa? Il termine “disciplina” deriva dal latino “discere” che vuol dire “imparare” e, di conseguenza, restituire ciò che si è imparato nell’esercizio della propria funzione nella società. Chi è, allora, il pubblico ufficiale tenuto alla “disciplina”? È il funzionario della Pubblica Amministrazione, che accede a quel ruolo attraverso pubblico concorso (art. 97), con il quale dà prova della sua preparazione e della sua competenza. Ma il funzionario pubblico è anche il rappresentante del popolo nelle assemblee elettive.
Anche per lui vale il principio della competenza. Poichè nessun eletto può invocare a sua scusante la circostanza di essere appena arrivato dicendo “datemi il tempo di imparare”: gli affari pubblici, le urgenze sociali, il governo di un paese non possono mai aspettare.
Il secondo principio di Mozi aderisce perfettamente al secondo dovere richiamato dalla nostra Costituzione: “l’onore”, che nel pantheon dei valori civili evocati dalla Costituzione democratica, assume un significato di adesione all’etica costituzionale, al contegno virtuoso. Mi fermo qui e mi astengo dal fare commenti sull’osservanza dell’art. 54 nel mondo della rappresentanza politica all’altezza dei nostri giorni. Diciamo solo che il pensiero di Mozi non riesce ad ottenere il diritto di cittadinanza nella presunta nuova Repubblica.
Tutto questo pistolotto per riaffermare il sacro principio secondo cui ad amministrare una qualunque Istituzione debbano essere concittadini consci della differenza nel sedersi a guidare una Panda od una Ferrari. Non sempre risulta aritmeticamente corretta e produttiva l’equazione che associa a tanti voti un’adeguata capacità. La matematica non è un opinione. L’onestà e la competenza debbono essere invece inscalfibili certezze.