“L’unica ossessione che vogliono tutti: l’amore”.
Che Philip Roth sia il mago della scrittura non devo certo dirvelo io, l’ho trovato geniale con “Pastorale americana”, lo trovo più che geniale nel “Lamento di Portnoy” edito da Einaudi.
Una parabola discendente sull’America, l’ebraismo, la religione in generale, il sesso, la famiglia e l’esordiente è il lettino dell’analista a cui Alexander Portnoy confida come un fiume in piena tutti i suoi drammi esistenziali, ponendo l’accento, come Freud da copione, sulla figura(schizofrenica) della madre.
Ironico, pungente, grottesco, al contempo riserva una parte poetica sui suoi rapporti personali, quasi a far impietosire il lettore perché Portnoy sembra essere legato a doppia catena in rapporti costringenti.
Crescere in una famiglia ebraica che divide il mondo in ebrei e goyim(non ebrei), una madre che sta col fiato sul collo del figlio anche quando si chiude in bagno, una sorella assente e un padre sottomesso.
Il sesso è per Alexander la via di fuga, la chiave per la libertà.
Il romanzo fu scritto a fine anni ‘60, usando un linguaggio molto esplicito, potete quindi immaginare la reazione sociale, ma ebbe un gran successo, proprio perché ad essere inneggiata era proprio la libertà: sessuale, religiosa, civile.