“Perché la sofferenza, Rodion, è una gran cosa. Nella sofferenza c’è un’idea”
Tanto è stato scritto, tanto è stato detto, ma quando si ha davanti un capolavoro come Delitto e castigo, di Dovstoevski(Einaudi), troppo bisognerebbe ancora dire e scrivere.
Sono i grandi classici ad ispirarci, a darci informazioni passate che raccontano tanto del presente, come se Fëdor sapesse già a fine ‘800 quali travagli interiori avrebbe vissuto l’uomo del futuro.
È evidente che per quanto il mondo sia andato avanti, l’essere umano nella sua più profonda interiorità sia sempre lo stesso.
Gli stessi conflitti, gli stessi dolori e l’amore che speriamo sempre possa salvarci e quasi sempre lo fa.
Cosa ho letto? La storia di un uomo misero, che si pensava superiore solo perché aveva sogni grandiosi e per realizzarli e capire come ci sente a sembrare più astuti degli altri, commette un delitto.
Raskol’nikov rappresenta il dualismo, lo yin e lo yang, la doppia testa del demone e il castigo è quello di dare ascolto alla parte più buia e oscura che abita in ognuno di noi.
È tutto uno stato febbrile, una sofferenza, un pallore, una Pietroburgo angusta, con case come topaie, quasi a voler definire una cornice rappresentativa di quello che tutti i personaggi vivono.
C’è chi chiama in soccorso la provvidenza, chi la giustizia terrena e chi prova ad espiare i propri peccati come una Maddalena, che in questo caso si chiama Sonja, una delle figure più delicate di tutto il romanzo.
Dostoewskij ha chiaramente un disegno politico, religioso e sociale dell’epoca, il racconto è una fotografia di quegli anni, senza troppi indugi ed è questo il potere della scrittura, degli scrittori, saper immortalare ciò che nessun altro riesce a fare.
Raskol’nikov ha capito che attraverso l’amore e il perdono può esserci redenzione e ha capito che il castigo ha un peso maggiore se dietro al delitto c’è una natura misera e arrogante.
La sofferenza è il vero viaggio, la vera maestra di vita.