Ci sono tanti e tanti modi per ricordarsi di qualcosa o di qualcuno, infinite espressioni del ricordo che pian piano svaniscono, si cancellano, evaporano dalla memoria ma restano sul supporto. Quale supporto? Qualsiasi: una fotografia, un pezzo di stoffa con incisa una frase, un portapenne di legno di cedro momentaneamente fatto sparire dalla scrivania poiché troppo doloroso da vedere e troppo poco bello per osservarne solo la bellezza della manifattura, un poster di un film comprato insieme in quel famoso viaggio e poi mai staccato per paura di non trovare un degno sostituto, un maglione rosso di lana cotta usato per scaldare il corpo di colui che ce lo ha successivamente restituito tagliando ogni contatto con noi, oppure una semplice conversazione che si sapeva già essere l’ultima. Qui, però, stiamo parlando di sensazioni riguardanti storie e vicende già terminate, con un risvolto negativo che farà parte del nostro bagaglio culturale e strettamente sigillato in quel sottogruppo che prende il nome di “cose da dimenticare il più in fretta possibile anche se non sarà facile farlo“. Siamo tutti fotografi della nostra storia, quella stessa che ogni giorno viviamo, ricordiamo, incameriamo e che a volte vorremmo modificare grazie ad apparecchiature non ancora inventate. Se davvero si potesse cambiare il corso della storia agendo direttamente su un ricordo, beh, le cose andrebbero bene per tutti, ma se le cose andassero bene per tutti allora la speranza svanirebbe, quel “sentire” nobile e ridicolmente diffuso non potrebbe più fare la sua parte e sarebbe destinato a scomparire nei meandri di un passato troppo poco al passo con i tempi e oramai modificato artificialmente. Cambierebbe tutto, anche noi stessi. Il libro che vi presento questa settimana non comprende nulla di artificioso, bensì di umano. Troppo. Della lunghezza di trecentonove pagine, edito da Mondadori e scritto da Margaret Mazzantini “Splendore” racconta la storia di due ragazzi cresciuti insieme durante la prima fase della loro vita. “Due ragazzi, poi due uomini, un destino. Uno eclettico e inquieto, l’altro sofferto e carnale; una identità frammentata da ricomporre, come le tessere di un mosaico lanciato nel vuoto: un legame assoluto che s’impone, violento e creativo, insieme al sollevarsi della propria natura. Un filo d’acciaio teso sul precipizio di una intera esistenza”.
I protagonisti sono Guido, colui che racconta la storia, e Costantino: “Il figlio del portiere. Suo padre aveva le chiavi di casa nostra, quando partivamo innaffiava le piante di mia madre. Ci incontrammo durante tutta l’infanzia, lui scendeva, io salivo. Lo vedevo dalla finestra, mentre scivolava con il pallone sotto il braccio nel canneto lungo il fiume“. Guido è invece un ragazzo diverso da lui, sia per indole che per estrazione sociale: “Non ho avuto fratelli, ho trascorso le ore da solo. Steso su un tappeto con un pupazzo tra le mani, da far sparare, da far lottare. Solo la domenica avevo entrambi i genitori, mio padre comprava i giornali e li leggeva sui divani di cuoio del circolo dove pranzavamo”. Due ragazzi molto diversi tra loro con in comune un palazzo, un atrio, delle finestre dalle quali guardare e la curiosità, quella maledetta curiosità che dal fondo dell’animo preme per essere dissetata. La trama, in teoria, si compone e si chiarifica durante tutta la durata del racconto, nella prima parte ci mette al corrente delle abitudini dei due ragazzi, delle loro compagnie, dei loro caratteri e di tutto quello che gli ruota attorno, insomma, un incipit come tanti altri che presuppone una buona immersione in quel che sarà poi la storia di due vite “lontane” ma al contempo morbosamente vicine. Le famose rette parallele. Andiamo oltre, leggendo tra le righe si scopre che i due ragazzi, pur non frequentandosi mai durante la giornata, esplorano però con lo sguardo lo sguardo dell’altro, cercano di capire perché le pupille dei loro occhi sono attratte dal compagno in modo così assiduo e preciso. Dapprima nessuno dei due adolescenti ci fa caso, ma una sera si ritrovano da soli, all’interno di una tenda, dove il tutto prenderà forma. Confusi e distratti i due ragazzi fanno finta di nulla e continuano a vivere le loro giornate come hanno sempre fatto, fino al giorno in cui si rendono conto che le loro strade si sarebbero separate. E si separeranno. Alla fine della scuola Guido, preso da un impulso estremo di cambiare “le sue cose” si trasferisce a Londra perdendo quasi del tutto i contatti con Roma e con la sua famiglia. Costantino invece rimane a vivere nella Capitale. I due non si vedranno per molti anni, e come ogni buon racconto vuole, dopo la morte della madre di Guido, il padre, risposando un’altra donna invita suo figlio alle nozze. Lì sarà tutto molto più chiaro, i due si incroceranno e seppur entrambi impegnati in altre relazioni monogame ed eterosessuali, si ritroveranno ancora ad essere innamorati l’un dell’altro. Un amore troppo distante per essere reale, un amore troppo nascosto per essere accettato, un amore troppo complicato per evadere dalla famiglia e lasciare tutto al caso. “La storia di Guido e Costantino è un viaggio attraverso i molti modi della letteratura, un caleidoscopio di suggestioni che attraversa l’archeologia e la contemporaneità, una Roma ventriloqua, lacustre, gli echi della mitologia greca e una Londra turbìna di stravaganze. Osa addentrarsi nelle pieghe più scomode dell’amore, che sovrasta gli uomini stessi che lo provano, quello che gli artisti da sempre cercano di catturare perché trova nella propria bellezza la ragione di esistere, al di sopra di ogni giudizio“. Due ragazzi divenuti uomini che nonostante abbiamo cambiato forma e spirito, hanno mantenuto sempre intatto il desiderio per l’altro, come se non ci fosse mai stato nessun impedimento. Ma, ahimè, qualcosa di losco e di subdolo trama alle spalle dei nostri avventori. Il resto, come sempre, lo lascio a voi. Il libro è bello, scorrevole e con particolare attenzione a quello che mi piace definire “la descrizione del sentimento“; sembra quasi che siano le sensazioni a creare il circostante: una sorta di incantesimo al contrario, prima si vede l’effetto e solo dopo si scopre la formula magica utilizzata per metterlo in atto. “Splendore” è un libro che ripercorre, anno dopo anno, il cambiamento insito delle persone pur mantenendole uguali a loro stesse. I dialoghi sono veri, diretti e senza giri di parole: frasi coniate, e ancora di più, forgiate per essere riconosciute. Cerco di mettere su carta quello che realmente penso di questo libro e, sfogando la mia consueta sincerità, devo dire che le parole in questo caso non sarebbero sufficienti a descrivere come la piccola storia di due uomini possa trasformarsi, durante la lettura, in un’impresa epica correlata da prove quasi impossibili da superare. Il “ti amo” in questo romanzo non viene detto nel punto più altro dell’espressione umana e letterale, ma laddove si scava, dove la terra è ancora morbida, dove è possibile nascondersi. Un “ti amo” messo in ombra, vivisezionato, imperante nella sua timida loquacità e attento a non commettere passi falsi. Molto, molto attento. Si cerca sempre di fare del nostro meglio per concedersi una vita degna di essere vissuta; ma sotto, nell’intimo, nelle segrete stanze della nostra libertà, c’è sempre qualcosa (o qualcuno) alla quale non smetteremo mai, mai, mai di pensare. Pensateci.