L’aumento dell’età pensionabile delle donne approvato con l’ultima finanziaria, pone l’Italia in concorrenza con l’ordinamento previdenziale degli altri paesi europei, la maggior parte dei quali prevede già nel proprio sistema pensionistico un’equiparazione anagrafica tra uomini e donne. In Germania, ad esempio, sia gli uomini sia le donne vanno in pensione di vecchiaia a 65 anni, innalzati a 67 per coloro che sono nati dopo il 1947; discorso simile per la Spagna, dov’è possibile anche differire il pensionamento oltre il 65° anno di età con un ovvio aumento sulla misura della pensione. In Belgio e in Finlandia si va in pensione di vecchiaia a 65 anni indifferentemente tra uomini e donne, La Francia mantiene un pensionamento compreso tra i 60 e i 65 anni sia per gli uomini che per le donne, tuttavia per coloro che chiedono la pensione prima del 65° anno è prevista una riduzione permanente dell’importo della pensione. Il Regno Unito è quello che più si avvicina al nostro attuale sistema con un pensionamento di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne, ma con graduale aumento per queste ultime fino a 65 anni a partire dal maggio 2010 per una determinata fascia, aumento che andrà a regime nel 2020 inoltrato. Inutile dire che la riforma che interessa i futuri pensionati italiani non dipende soltanto da un adeguamento agli altri sistemi europei, ben sappiamo, infatti, che alla base di ogni riforma pensionistica c’è soprattutto il risanamento dei conti pubblici (negli ultimi 20 anni le riforme attuate hanno effettivamente portato ad una stabilizzazione della spesa pensionistica). L’equiparazione tra donne e uomini resta però una metà irraggiungibile per via dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita, secondo i dati che fornisce regolarmente l’Istat. Inizialmente previsto per gennaio 2015, l’adeguamento è stato anticipato dalla finanziaria appena approvata al 1° gennaio 2013; come dire, si sono accorti troppo tardi che la vita media delle persone si è alzata, perciò occorre adeguarsi subito, non fra quattro anni. Nella sostanza, l’articolo 18, comma 4 della Legge 111 (la finanziaria 2011) prevede che dal 1° gennaio 2013 l’età pensionabile (con esclusione delle donne del settore privato) dovrà essere incrementata di 3 mesi, quindi da quella data non occorreranno soltanto 65 anni per decretare l’età in cui un lavoratore potrà essere ritenuto idoneo alla pensione di vecchiaia (come dicevo la scorsa volta, le donne del pubblico impiego passeranno dal 1° gennaio 2012 direttamente a 65 anni, quindi anch’esse rientrano in questi parametri), occorreranno dunque 65 anni e 3 mesi. L’incremento non potrà superare i tre mesi e sarà a cadenza triennale e ciò che più preoccupa è il fatto che interesserà anche i requisiti per l’accesso al pensionamento di anzianità, per intenderci quello col sistema delle quote che si ottengono sommando anzianità contributiva ed età anagrafica. Sarà utile spendere due parole anche per questo: salvo ulteriori modifiche legislative, dal 1° gennaio 2013 l’età per l’accesso alla pensione di anzianità sarà di 61 anni e 3 mesi (quota 97 e 3 mesi) per i lavoratori dipendenti e 62 anni e 3 mesi (quota 98 e 3 mesi) per i lavoratori autonomi, vale a dire artigiani, commercianti, liberi professionisti e lavoratori parasubordinati. Salvo sempre nuove modifiche di legge, il successivo innalzamento si avrà dal 1 ° gennaio 2016, con i seguenti parametri: 65 anni e 6 mesi per la pensione di vecchiaia; 61 anni e 6 mesi (quota 97 e 6 mesi) per la pensione di anzianità dei lavoratori dipendenti e 62 anni e 6 mesi (quota 98 e 6 mesi) per la pensione dei lavoratori autonomi. A regime si dovrebbe arrivare nel lontano 2052 quando occorreranno 69 anni per l’accesso al pensionamento di vecchiaia e 65 anni con quota 101 per la pensione di anzianità dei lavoratori dipendenti e 66 anni con quota 102 per i lavoratori autonomi. Il traguardo della pensione sembra quindi diventare una meta sempre più irraggiungibile.
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