Pubblichiamo oggi la prima puntata di una serie di approfondimenti dedicati al tema della Comunicazione, a cura del nostro Eduardo Saturno
PSICOLOGIA ED ETICA DELLA COMUNICAZIONE
In questo primo excursus inquadreremo in generale il tema della comunicazione e i suoi rapporti con la persuasione. La comunicazione è un tema di estremo interesse rispetto al quale c’è stata sempre un’ambivalenza sostanziale nella storia del pensiero. Da un lato viene vista come un luogo privilegiato di scambio e interazione, qualcosa di estremamente positivo e dall’altra parte come luogo di occultamento dell’individualità nel collettivo e quindi quest’ambivalenza rispetto al tema del fare come fanno gli altri, dell’agire come agiscono gli altri , del lasciarsi persuadere dalle opinioni degli altri, da un lato la positività dell’essere insieme, in un collettivo in cui si valorizza il senso di appartenenza e dall’altro appunto la perdita dell’individualità. L’oggetto di questa prima “lezione” si riferirà ai modelli che ci consentono di interpretare la comunicazione quindi la natura e le funzioni della comunicazione vista dai diversi approcci interpretativi nell’ambito delle discipline psicologiche che hanno interpretato questo fenomeno così importante e parleremo delle ragioni dell’influenza sociale, perché siamo così disposti a lasciarci influenzare dagli altri.
Le funzioni della comunicazione e i modelli interpretativi che sono stati proposti per interpretare questo fenomeno. Il modello più comune è quello che viene definito “meccanico” o matematico, qualcuno lo ha definito postale che è sostanzialmente lineare di questo tipo. Esiste una fonte da cui parte un messaggio che viene codificato, tradotto in un codice che sia idoneo rispetto al canale sul quale si deve trasmettere l’informazione, per arrivare ad un luogo in cui avviene la decodifica del messaggio, per arrivare in fine al destinatario. È un processo che implica alcuni presupposti, alcune presupposizioni rispetto a come avviene il processo e alla natura stessa del processo. Vediamole brevemente.
La prima idea è che si tratti sostanzialmente di un processo lineare. Ovvero che la trasmissione avviene dalla fonte al ricevente in maniera unidirezionale. È pur vero che il processo di trasmissione poi s’inverte, quello che è il ricevente diventa la fonte però il processo è unidirezionale a senso unico alternato, potremmo dire. È un processo che indica la trasmissione di informazioni da chi le ha a chi non le ha e che quindi deve essere messo nelle condizioni di averle, ecco perché quella metafora del postale, c’è un contenuto che viene impacchettato nel messaggio e viene trasmesso al ricevente che lo aspetta e che trae da questo messaggio dei vantaggi in termini di conoscenza rispetto al mondo esterno. Quindi sono trasmissioni di informazioni che sono in sé compiute, finite da parte dell’emittente al ricevente, di quelle informazioni che prima del processo di comunicazione non aveva.
Sono informazioni di tipo oggettivo, fattuale e hanno a che fare essenzialmente con lo stato del mondo, con lo stato delle cose, sono informazioni che l’individuo emittente trasmette al ricevente per renderlo più capace di interpretare il mondo con le sue caratteristiche oggettive. Si presuppone che nell’ambito di questo modello la comunicazione avvenga in modo prevalentemente verbale, usando parole, il codice principale con cui noi codifichiamo le informazioni è appunto il codice linguistico, il codice verbale. Un altro importante requisito di questo modello è che la comunicazione abbia un inizio e una fine, ovvero comincia quando qualcuno ha intenzione di comunicare qualcosa e questo contenuto venga formato nella mente di chi lo vuole trasmettere e finisce quando questa trasmissione è avvenuta e quando l’emittente non ha più intenzione di comunicare qualcosa al ricevente. La comunicazione ha un inizio e una fine e può essere in qualsiasi momento disattivata. In questo modello tutto funziona bene se non ci sono problemi di codifica o di canale. Se l’emittente e il ricevente
possiedono lo stesso canale, lo stesso codice di codifica e decodifica del messaggio e lungo un canale che è pulito e non disturbato la comunicazione avrà effetto.
Pensiamo per esempio ad una situazione del tipo di due esploratori che stanno sulla cima di due montagne e uno dei quali vede qualcosa che l’altro non può vedere perché sta in una vedetta, vede qualcosa, quindi ha delle informazioni del mondo che l’altro non ha, le codifica attraverso un sistema che può essere il codice morse le trasmette all’altro lungo un canale che può essere una pila che funziona con una luce intermittente se l’altro conosce il codice morse, se il canale non è disturbato per esempio, se avviene di notte va bene ma se questa cosa avviene di giorno è disturbata dalla luce del sole e quindi la trasmissione non può avvenire. Alla fine del processo il ricevente possederà delle informazioni che prima aveva soltanto l’emittente Ad esempio che nella valle stanno arrivando dei nemici. La trasmissione si attiva e disattiva, c’è un momento in cui qualcuno dice: comincio la trasmissione, pensiamo per esempio a delle ricetrasmittenti dove uno accende con un cicalino e dall’altra parte si sente un oggetto similare che suona e quindi comincia la comunicazione che finisce quando qualcuno dice passo e chiudo e quindi la comunicazione non ha più effetto. È un modello detto matematico perché si interessa di studiare la probabilità che tutta l’informazione in partenza arrivi al destinatario. Ed è un modello meccanico perché questa azione di codifica e decodifica potrebbe essere fatta da una macchina come spesso accade, macchine che sono in grado di codificare e decodificare l’informazione.
È un modello che funziona nella sua impostazione generale, ma che ha una serie di limiti:
1) Il ruolo attivo della mente: la persona che effettua la codifica e la decodifica non è soltanto una macchina che
elabora l’informazione ma è una mente, un soggetto attivo che prende le informazioni le inserisce in un contesto di informazioni che già possiede e ha delle finalità, degli scopi, ha un mondo di simboli e di cultura entro cui inserire quelle informazioni.
2) Le presupposizioni implicite che stanno dietro il processo di comunicazione. Hanno a che fare sostanzialmente con la cultura, con l’insieme delle definizioni del mondo che io possiedo prima della comunicazione che rispetto a quella comunicazione hanno il compito di assegnare senso e significato alla comunicazione stessa. Gran parte della nostra comunicazione trasmette una piccolissima parte di informazioni perché le altre che danno senso all’informazione sono presupposizioni implicite, qualcosa che sta dietro, che sta prima senza le quali quella stessa informazione non avrebbe alcun senso.
3) Non valuta a sufficienza il ruolo della comunicazione non verbale. Dà importanza alla comunicazione verbale, ma gran parte della comunicazione avviene a livello non verbale. Noi mettiamo moltissime informazioni a livello non verbale, non soltanto i gesti che hanno un certo significato, ad esempio un gesto come questo che indica vittoria (fa una V con la mano) che è una parte specifica della comunicazione non verbale. La comunicazione non verbale ha a che fare con la gestione del corpo, dello spazio, con lo sguardo, il tono della voce, con una serie ampia di modalità di comunicazione che includono l’intera nostra gamma delle potenzialità fisiche e quindi la comunicazione non verbale probabilmente è la parte più rilevante della comunicazione lungi dall’essere soltanto un supporto rispetto alla comunicazione verbale e questo è ben visibile nella dimensione relazionale della comunicazione.
Nel modello relazionale contrariamente a quanto prevedeva quello meccanico lineare la comunicazione si svolge
con un flusso costantemente bidirezionale, nel senso che è pur vero che tra due persone che parlano vi è una parte che parla e l’altra ascolta e poi si danno il cambio, ma mentre quella che ascolta sta ascoltando manda continuamente segnali comunicativi, manda segnali di attenzione di comprensione, di condivisione o non
condivisione di quello che l’altro sta dicendo e l’importanza di questi segnali è tale che noi ne siamo assolutamente dipendenti. Ci sarà capitato molte volte di stare al telefono con una persona, se noi per venti secondi non sentiamo dall’altra parte del filo nulla, nessun segno di presenza dell’altro, noi ci accertiamo se sia
caduta la linea “ci sei?” perché siamo abituati ad avere un costante ritorno dagli altri e quando lo facciamo in
presenza questo avviene attraverso lo sguardo, il cambiamento di posizione, gli occhi, l’espressine del volto, col
telefono questo non essendo possibile, almeno finora poi vedremo con la videocomunicazione che cosa cambierà, noi abbiamo bisogno di sentire costantemente dei segnali di attenzione da parte dell’altro che ci dice ti sto ascoltando, ti capisco e magari sono d’accordo con te o no sono d’accordo con te.
Tutto lo scambio dei turni di parole avviene tramite una miriade di segnali non verbali che ci consentono di sintonizzarci su cosa l’altro sta dicendo e quindi sull’opportunità di ribadire certi concetti oppure di trovare qualche altra argomentazione se percepiamo dall’espressione del nostro interlocutore che ciò che abbiamo detto non è stato convincente. Quindi succede che si ha un continuo adattamento del messaggio alla risposta. Il messaggio non è in sé finito, chiuso come avevamo previsto nell’altro modello, cioè c’è già tutto il messaggio nella testa di chi parla deve solo essere trasmesso, ma il messaggio viene continuamente costruito, adattato a quella che è la risposta comunicativa da parte dell’interlocutore.
La cosa più importante è che noi trasmettiamo costantemente non solo informazioni sullo stato del mondo come abbiamo detto rispetto all’altro modello, ma anche informazioni sull’identità e sullo stato delle relazioni cioè io dico all’altro chi sono io, qual è la mia immagine di me, qual è l’immagine che ho di lui e del nostro rapporto. Se io comunico ad una persona che questa sera al tal cinema presentano una tale retrospettiva di un certo regista io gli sto comunicando un’informazione sullo stato del mondo, lui non sapeva questa cosa ed io gliela dico, ma allo stesso tempo gli sto comunicando che sono una persona che si interessa di cinema, che si interessa di quel particolare regista che magari ha una cultura cinematografica tale da notare l’esistenza e il valore di quel regista
che ho piacere che conosca questa informazione e che quindi lo reputo in grado di seguire il mio ragionamento e le mie preferenze su questo terreno e magari che vorrei venisse con me al cinema quella sera. Immaginate una situazione in cui io sto aspettando una telefonata importante, qualcuno che dovrebbe chiamarmi per andare al cinema, riprendendo l’esempio precedente e non lo fa. Passano i giorni, le settimane ed io non ricevo questa telefonata, in questo caso non si tratta di un’assenza di comunicazione, si tratta di una comunicazione, di una volontà di non comunicazione.
Gli studiosi che fanno capo alla scuola di Paolo Alto hanno identificato come uno degli assiomi della comunicazione: non si può non comunicare perché qualunque atto relazionale è un atto comunicativo e quindi nel caso dell’esempio precedente il non telefonare ad una persona che si aspetta una telefonata è una non comunicazione, così come un passeggero che entri in un treno e fa un commento generale sul tempo comunica un’informazione sullo stato del mondo che però è del tutto irrilevante in realtà sta comunicando il desiderio di fare due chiacchiere. Se l’altro risponde con un mugugno e legge un libro o un giornale non è che non sta comunicando, ma sta comunicando l’intenzione di non voler comunicare, di starsene per i fatti propri e non aderire alla proposta comunicativa che è stata fatta dalla persona precedente. Quindi non si può non comunicare, è impossibile disattivare la comunicazione secondo questo modello e quindi le persone sono costantemente in un terreno comunicativo per questa scuola naturalmente, c’è anche chi la pensa diversamente e considera eccessivo questa identificazione toltale della comunicazione con la relazione. Per questo modello la comunicazione equivale alla relazione. Tutto questo come dicevo prima avviene usando in prevalenza il linguaggio non verbale perché appunto io a parole posso dire una cosa, nel modo in cui lo dico, per il momento in cui lo dico e per il tono che uso, per l’espressione io posso dare tutta un’altra serie di messaggi così come do messaggi in continuazione con la postura, una postura con braccia conserte indica ostilità, sfida in qualche modo, il modo in cui si dirige lo sguardo è qualcosa che ha a che fare sicuramente con le mie intenzioni comunicative ma che ha anche a che fare con l’universo simbolico di cui io faccio parte, con la cultura quindi la comunicazione come costruzione di universi simbolici. Perché appunto questo gesto (fare la V con le dita) vuol dire qualcosa in questa cultura ma non in altre.
Ci sono gesti che in alcune culture hanno valore positivi ed in altre invece significano l’opposto. Nella nostra cultura guardare una persona negli occhi può essere segno di apprezzamento, di interesse di stima, di sincerità in altre culture o in altri contesti può essere un segno di sfida guardare dritto negli occhi, di invito alla lotta, dipende dalla distanza relazionale. Noi abbiamo delle modalità decisamente rigide nella gestione dello spazio, stare troppo vicine alle persone significa invaderne lo spazio privato, significa aspirare ad essere immessi in una cerchia intima e quindi dover fare i conti con la volontà o meno di quella persona di includerci in quella cerchia intima. Quindi le cose sono estremamente più complesse di quello che poteva dire il modello lineare di cui abbiamo parlato precedentemente.
Ultimo punto è la specificità della comunicazione di massa. Ciò che abbiamo detto finora è applicabile soprattutto alla comunicazione interpersonale, alla comunicazione faccia a faccia, ma anche in parte alla comunicazione di massa che ha poi una sua specificità, una sua potenza estremamente rilevante rispetto a tutte le cose che abbiamo detto perché amplifica i canali, tutte le potenzialità, diventa un terreno entro cui come vedremo poi in un’altra lezione tutte le dinamiche comunicative acquistano una specificità che va studiata come tale. Tutto questo è quanto riguarda la natura e le funzioni della comunicazione, abbiamo visto che è un sistema complesso che ci accompagna nella nostra vita quotidiana che non ci abbandona praticamente mai se adottiamo una modellistica di tipo relazionale dentro il quale fondamentale è l’interazione coi nostri simili che ci consente di utilizzare la parte più specificatamente umana del nostro essere, l’uomo animale politico che tende a relazionarsi con gli altri e fa della relazione con gli altri la sua natura più intima.
Vediamo adesso quali sono le ragioni dell’influenza sociale. Perché siamo così disposti a farci influenzare dai nostri simili? Possiamo vedere all’opera le diverse teorie interpretative che avete conosciuto nell’ambito della
psicologia. Si possono quindi dare per scontate tutte una serie di informazioni di base delle diverse teorie però
richiamiamo qualche punto specifico perché alcune teorie più di altre si sono interessate del fenomeno dell’influenza sociale. La prima è la teoria biologica o istintualista. Sapete che all’inizio della fondazione delle scienze sociali, parlo della metà dell’800 e inizio ‘900 le teorie biologiche e innatiste sono state quelle che hanno avuto un peso prevalente, quindi tutto avviene perché c’è un istinto frutto di una lunga selezione naturale. Nel caso dell’influenza sociale funziona un particolare istinto gregario, cioè la nostra necessità di stare insieme agli altri, di fare come fanno gli altri perché questo nel corso del nostro passato evolutivo si è rilevato produttivo da un punto di vista dell’adattamento e quindi un vantaggio evolutivo e quindi noi avremo sviluppato questo istinto che ci porta a fare come fanno gli altri, alcune culture hanno parlato proprio di istinto di branco che ci spinge a fare gruppo con in nostri simili, perché l’unione fa la forza, essere dentro un sistema sociale organizzato è qualcosa che protegge l’individuo e aumenta le sue possibilità di sopravvivenza.
L’altra grande teoria è la teoria analitica, sostanzialmente le dinamiche psicologiche profonde, i meccanismi di
difesa cioè il modo con cui noi ci adattiamo al peso della realtà esterna, in cui mettiamo in sintonia le nostre
esigenze individuali con le esigenze della realtà è appunto il fondamento della psicoanalisi, genera i meccanismi di difesa che ci portano ad attribuire estrema importanza a quello che dicono o fanno gli altri perché ancora una volta in questo modo noi riusciamo a trarne un vantaggio. E la teoria che più di altre valorizza il vantaggio individuale e il condizionamento è il comportamentismo, ovvero la teoria secondo la quale noi siamo quello
che siamo perché abbiamo avuto nel passato un apprendimento basato su premi e punizioni. L’ambiente attraverso il meccanismo del rinforzo ci ha insegnato che certe cose vanno fatte e certe altre no. Nel nostro passato di individuo e non di specie, noi nasciamo come una tabula rasa e su questa la società scrive regole di
comportamento che sono tali per cui noi siamo stati costantemente premiati quando noi abbiamo fatto come
hanno fatto gli altri, quando ci siamo tenuti in un territorio di normatività sociale. Questi sono i tre grandi ceppi
delle teorie psicologiche, quella istintualista, psicoanalitica e comportamentista che all’inizio del secolo hanno
strutturato il nostro modo di interpretare il comportamento.
Ma anche altri approcci hanno potuto dire qualcosa di interessante su questo a partire dall’approccio cognitivo
che è quello che a partire dagli anni ’50-60 è poi esploso e diventato la teoria prevalente nell’ambito della psicologia ma che anche all’inizio del secolo non era affatto rappresentata seppure in maniera molto ridotta da
poche persone che oggi noi riconosciamo come dei precursori importantissimi. Perché le necessità del nostro
sistema cognitivo ci portano ad adeguarci alle richieste degli altri? Il rapporto con gli altri ci aiuta da un punto di
vista cognitivo a risolvere un doppio problema che abbiamo nel trattamento delle informazioni. Da un lato si
trova ad avere troppe informazioni in generale rispetto al mondo. Noi veniamo bombardati costantemente da una quantità sterminata di informazioni, tutti i nostri canali sensoriali e il sistema cognitivo che pur essendo
estremamente potente e sofisticato non riesce a far fronte a tutte queste informazioni. Per cui da un lato cerca di
ridurre le informazioni in arrivo, le semplifica, le categorizza, le riduce di numero raggruppandole o selezionandole, stabiliamo delle soglie al di là delle quali il dato viene considerato informativo e al di sotto delle quali viene considerato disinformativo e raggruppiamo insieme delle informazioni omogenee in categorie. Poi queste categorie sono organizzate gerarchicamente, sono schematizzate, noi possediamo una serie di strumenti cognitivi che ci consentano di mettere ordine in questo caos che ci deriva dal mondo esterno.
Ma questo è solo uno dei duplici problemi perché se è pur vero che io ho troppe informazioni che devo raggruppare e categorizzare dall’altro lato rispetto ad uno specifico oggetto sul quale io debba decidere e quindi appunto un problema da risolvere, una decisione da prendere o una persona rispetto alla quale io debba decidere o meno se approfondire la relazione oppure nel caso della conoscenza del mondo l’informazione che mi viene per esempio dai mezzi di comunicazione di massa rispetto ad una notizia che io devo giudicare se è vera oppure no rispetto ad un problema che mi si pone io ho poche informazioni mi mancano informazioni che mi permetterebbero di fare un’analisi accurata e quindi di rispondere in maniera giusta al problema che mi viene posto. E allora cosa faccio?
Attivo processi di inferenza che data un’informazione mi permettono di andare al di là dell’informazione disponibile e quindi di concludere la mia analisi interpretativa giungendo comunque a delle conclusioni; sono delle euristiche di giudizio per esempio tutte le varie strategie, scorciatoie che il sistema cognitivo utilizza per arrivare comunque ad una conclusione. Quella persona che è entrata nel mio scompartimento e che mi ha fatto quella proposta di chiacchierare: devo decidere in pochissimo tempo se accettare o meno la proposta sulla base sia se io ho voglia o meno di chiacchierare ma anche su quello che io penso di lui, se io quella persona la considero come potenzialmente interessante e questo lo faccio pur non avendo informazioni complete su quella persona a partire da indizi, come è vestito, che cosa ha in mano, come si muove, che tipo di linguaggio usa che mi consentono di fare inferenze e giungere a conclusioni valide e potenzialmente efficaci. Quindi perché gli altri sono estremamente importanti per risolvere questo problema? Perché mi danno una mano in questi compiti difficili, mi forniscono schemi, categorie, scorciatoie, strade già fatte che mi permettono di risolvere quel doppio paradossale problema: avere troppe informazioni da un lato e troppo poche dall’altro. L’uso di schemi, categorie, scorciatoie mi permettono di risolverlo e queste non vengono inventate da me ogni volta, vengono da un serbatoio, da un insieme di significati precodificati che sono l’ambiente simbolico in cui io vivo, da cui attingo ai contenuti delle strategie cognitive che io vado ad usare per risolvere in modo efficace il rapporto con il mondo.
Ed è per questo che abbiamo la necessità di costruire il mondo insieme agli altri.
La nostra immagine del mondo lungi dall’essere una fotografia, fotocopia del mondo è in realtà una costruzione del mondo è un’interpretazione costante che noi facciamo degli eventi proprio perché non abbiamo tutti gli elementi oggettivi per poter valutare e completare in modo oggettiva la nostra visione del mondo. Quindi è costantemente una costruzione che avviene insieme agli altri. Se io sto guardando il mondo e sto cercando di comprendere le caratteristiche di quell’oggetto per valutarlo, decidere, interpretarlo in maniera efficace, contemporaneamente e in maniera necessaria io sto guardando anche al mio simile che sta guardando quello stesso oggetto. In questo modo io costruisco una visione del mondo che mi dà più affidamento perché condivisa, perché fatta con gli altri, perché con gli altri io ho costruito una visone del mondo dotata di significato. E quindi io ho bisogno di cultura, di appartenenza.
La cultura è per me uno strumento interpretativo assolutamente indispensabile, è il sedimento di questa costruzione collettiva del mondo che è avvenuta nel corso della mia storia personale ma che ha attinto alla storia del gruppo a cui appartengo e tutto questo diventa un ambiente simbolico, diventa l’acqua dove nuotiamo come pesci senza la quale non potremmo non solo comunicare ma neppure vivere di fatto perché è questo che costituisce il nostro elemento esistenziale quotidiano, è appunto un sedimento di questo processo di costruzione collettiva che è avvenuto nell’ambito comunicativo, attraverso la mia storia e la storia del mio gruppo tramite processi comunicativi. Questa è sostanzialmente la natura e la funzione della comunicazione ed è questa la ragione fondamentale per cui noi siamo così disponibili a farci influenzare dagli altri.