Gli effetti della comunicazione di massa

Secondo approfondimento dedicato al tema della Comunicazione, a cura di Eduardo Saturno

Gli argomenti di questa lezione ricalcano una evoluzione dell’idea della potenza dei media, delle capacità dei media di generare opinioni nelle persone e creare il sistema di pensiero sulla base del quale le persone interpretano la realtà e reagiscono. Classicamente le teorie si indirizzano a chiarire la misura di questa forza e c’è come un’oscillazione nel corso della storia della riflessione sociale su questo tema, da una concezione dei media
onnipotenti che possono realizzare in maniera immediata e quasi senza nessuna possibilità di resistenza da parte degli individui del loro effetto di onnipotenza, a concezioni che considerano i media abbastanza forti da generare opinioni ma che comunque devono fare i conti con degli effetti limitanti in qualche misura. Gli approcci e le teorie si dividono in questi tre grandi contenitori 1) l’idea dei media onnipotenti 2) l’idea che gli effetti dei media siano limitati da alcune variabili intervenienti 3) l’idea che i media abbiano degli effetti anche onnipotenti ma non tanto nell’immediato ma a lungo termine.

Una cosa importante è che queste teorie sono lette essenzialmente come delle teorie sociologiche o all’interno della communication research che ha una matrice fortemente satura di riferimenti sociologi. Come vedremo moltissime di queste teorie devono molto all’approccio psicologico e di fatto possono essere interpretate alla luce delle cose che abbiamo detto fino ad ora in senso proprio, come delle teorie psicosociali. Per tale motivo vi farò una breve descrizione di questo scenario evidenziando gli aspetti più legati alla prospettiva psicologica. Iniziamo con l’idea dei media onnipotenti. Dobbiamo indagare il contesto storico culturale, quindi il momento storico in cui queste teorie prendono forza e rilevanza. All’inizio del ‘900 le esigenze di propaganda, il primo termine con cui gli effetti della comunicazione di massa divengono noti al pubblico è quello della propaganda rispetto a due grandi fatti: il primo è la guerra che ha caratterizzato il primo ‘900 ma anche poi tutto il resto del secolo appena chiuso e quindi la cosa da tenere presente è il fatto che gli studi sugli effetti sulla comunicazione di massa, sulla persuasione e creazione del consenso ecc., si sono sviluppati molto a questa esigenza di creare consenso intorno ad un fenomeno drammatico come la guerra.

Il primo conflitto mondiale soprattutto fu un elemento di rottura rispetto alla lunga tradizione bellica che ha caratterizzato la nostra specie perché fu una guerra di massa che coinvolse milioni di persone, nel corso della quale dove si ha necessità di creare consenso intorno agli obiettivi della guerra. La propaganda, i volantini che venivano lanciati sulle popolazioni o sulle truppe avversarie, la funzione fondamentale della radio nel creare consenso e sconcerto nelle truppe avversari. Molti degli studiosi che hanno fatto la storia di queste discipline vengono da un primo approccio a questa tematica nell’ambito della propaganda di guerra. L’altro grande tema è il consumo di massa, società che per la prima volta ha possibilità di consumi molto estesi anche a strati della popolazione che prima non potevano accedervi. Con l’industrializzazione crescente si pone il problema di vendere meglio, di più, di adeguare non solo quale prodotto ma anche un modello di consumo adatto a questa società e quindi il problema della propaganda commerciale che poi diventerà la pubblicità e comunque la grande tematica della creazione di un’opinione favorevole al consumo in generale ad alcuni prodotti in particolare.

E proprio da questi due temi, la guerra da un lato e la propaganda commerciale dall’altro, nasce questa idea abbastanza negativa se vogliamo di consenso e adesione realizzata appunto per convincere le persone a fare qualcosa che tutto sommato non sappiamo se va effettivamente in direzione dei propri interessi, certamente non nel caso della guerra ma spesso nel caso del consumo commerciale. Un’altra idea fondamentale è l’atomizzazione della società, l’idea che gli individui proprio per questi processi esaminati siano singoli nei confronti della società, vengono meno le forti solidarietà sociali, si ha una atomizzazione della società e l’individuo risulta essere in contatto soltanto con il mezzo di comunicazione di massa ma non più o molto meno con gli altri individui, tema anche oggi fortemente al centro della riflessione di queste discipline. Quindi continuamente c’è questa eredità con la tradizione con cui dobbiamo fare i conti che abbiamo analizzato nella lezione precedente, sulla suggestionabilità degli individui, sul fatto che essi sono facilmente preda delle indicazioni che vengono a loro trasmesse dagli altri e dai mezzi di comunicazione in generale.

Vengono alla luce quelle che vengono dette teorie ipodermiche o del ‘proiettile magico’. L’idea è che il messaggio che proviene dagli strumenti di comunicazione di massa colpisca l’individuo come un proiettile e abbia questo potere magico di persuaderlo immediatamente tanto da fargli cambiare repentinamente l’atteggiamento. È come se a qualcuno venisse iniettato un virus, con un’idea meccanica di causa effetto tra messaggio e persuasione, messaggio e cambiamento di comportamento. L’idea di una massa passiva e dei messaggi come potenti ed efficaci mezzi di persuasione. Un ‘altra famiglia di teorie è quella che possiamo etichettare sotto la dizione di “apprendimento imitativo”, con riferimento alla teoria comportamentista. Ci comportiamo in un certo modo perché abbiamo delle ricompense, perché quel comportamento è stato ricompensato in passato in maniera positiva. Molti autori hanno applicato questa teoria ai mezzi di comunicazione di massa valorizzando il fatto che non necessariamente per avere processi di apprendimento l’individuo deve partecipare direttamente e ricevere personalmente i rinforzi, ma può anche realizzarsi un apprendimento vicario cioè l’osservazione di un modello che agisce in un certo modo e viene ricompensato genera nell’individuo il desiderio di ricompensa o comunque il tentativo di reagire in quel modo. Bandura è l’autore al quale facciamo riferimento per questa idea comprovata in termini sperimentali soprattutto in un tema che è rimasto molto caldo e centrale nell’analisi dei media cioè il rapporto tra visione dei mezzi di comunicazione, in particolare della televisione e aggressività e violenza, tenendo conto che purtroppo per come sono strutturati i programmi e un serie di motivi, si calcola che un adolescente medio di 14 anni abbia assistito a qualche decina di migliaia di eventi aggressivi televisivi, per cui questa visione della violenza ha effetto sulla tendenza a comportarsi in maniera violenta. Ricerche empiriche dimostrano che c’è una correlazione mentre altre smentiscono questa cosa e altre ancora che si pongono il problema di relazione, del nesso di causalità. Cioè ammesso pure che esista la correlazione tra aggressività e visione di programmi violenti si potrebbe ipotizzare che le persone che sono per qualche motivo più aggressive tendono ad esporsi di più ai messaggi violenti.

Questa relazione tra quantità di consumo di televisione e tendenza a comportamenti aggressivi in molti studi è stata dimostrata. Analizziamo il momento in cui gli studiosi si pongono dei dubbi su questa relazione immediata consumo di media ed effetti sul comportamento ovvero le così dette teorie degli effetti limitati. La principale delle mediazioni che viene ipotizzata e quella degli atteggiamenti. Lo studio degli atteggiamenti è stato uno dei principali focus di ricerca della psicologia sociale proprio con riferimento ai mezzi di comunicazione di massa. L’idea è che l’atteggiamento si ponga come mezzo di mediazione tra stimolo e risposta. L’opera di comportamentismo classico, perché così rimase per molti anni la prospettiva prevalente, dato lo stimolo, il messaggio e la risposta ovvero il cambiamento di comportamento in mezzo, si ipotizza che si trovi una variabile interveniente che chiamiamo atteggiamento che è appunto in grado di mediare il rapporto tra stimolo e risposta per cui il processo di cambiamento del comportamento non è messaggio-comportamento, ma il messaggio fa cambiare un atteggiamento il quale fa cambiare il comportamento. Questo è il senso della mediazione e quindi
dell’atteggiamento come variabile interveniente. Se l’atteggiamento è così importante, tutto un vasto filone di studi si è dedicato a verificare la natura, la formazione, il cambiamento degli atteggiamenti, cioè che cosa sono gli atteggiamenti come si possono concettualizzare, quali sono le loro caratteristiche. In particolare una tradizione ormai consolidata oppone una concezione di atteggiamenti uni-dimensionale, cioè l’atteggiamento è una tendenza ad orientarsi in maniera favorevole o sfavorevole nei confronti di un oggetto. Questa è la caratteristica dell’atteggiamento, cioè una dimensione che gli autori definiscono di tipo valutativo, andare contro o andare verso, essere favorevoli o contrari, avere un’empatia positiva o negativa nei confronti di un altro oggetto sociale.

Altri invece hanno rilevato che questa dimensione va considerata in associazione con altre due dimensioni che sono quella cognitiva ovvero ciò che io so di un oggetto e quella comportamentale, ciò che io sono disposto a fare relativamente a quell’oggetto. L’atteggiamento avrebbe questa natura tripartita di valutazione, andare contro o a favore, cognizione, quello che io so dell’oggetto, comportamento, quello che io sono disposto a fare rispetto a quell’oggetto. Molto spesso queste tre cose vanno insieme, per cui penso negativamente, sono poco disposto ad agire ma a volte possono andare in maniera difforme. Ci sono studi dedicati proprio al rapporto tra queste componenti essenziali ai fini della persuasione, del cambiamento, del comportamento a seguito dei mezzi di comunicazione di massa, tra il comportamento, la cognizione e l’affetto. Io potrei sapere delle cose, avere una certa disposizione e poi comportarmi in maniera del tutto diversa da quelle che sono le prime due componenti dell’atteggiamento. Infine un grande filone di ricerca nella triade degli atteggiamenti a cavallo con gli studi sulla comunicazione di massa è quello della misurazione degli atteggiamenti stessi. Una prospettiva di carattere metodologico che utilizza le scale di atteggiamento, le sperimentazioni, di messa alla prova con metodi di
ricerca empirica importanti per lo sviluppo della disciplina.

Funzioni dell’atteggiamento.
Si fa riferimento alle teorie interpretative, ove l’atteggiamento è qualcosa che serve come difesa della persona rispetto al mondo esterno, ma anche come sanzione di appartenenze, di certificazione di appartenenza ad un gruppo che ha una certa visione della realtà, quindi condividere l’atteggiamento del mio gruppo significa anche per me essere certo delle mie appartenenze ed essere membro del gruppo di cui faccio parte. Tutto questo è stato realizzato nell’ambito di un filone di ricerca della scuola di Yale che è nata negli anni prossimi alla seconda guerra mondiale, ad opera di Carl Hovland, che ha marcato lo studio degli effetti della comunicazione di massa e del rapporto tra comunicazione di massa e atteggiamenti. Gli aspetti più importanti sono racchiusi nel volume Communication and persuasion del 1953. Ne vediamo brevemente i contenuti. Si tratta di una ricerca applicata, che nasce da questa esigenza forte di comprendere le potenzialità in termini di cambiamento degli atteggiamenti da parte delle persone che sono inserite in un certo consenso comunicativo ma anche in un certo contesto sociale. Le finalità erano capire come costruire il messaggio in modo da avere la maggiore efficacia e persuasione per fini che sono di natura sociale che vanno dal rapporto con i soldati al fronte, che devono essere convinti di un certo obiettivo e quindi far propri gli obiettivi della guerra, ai rapporti con la popolazione in guerra che deve superare certe difficoltà fino alla costruzione di messaggi persuasivi complessivamente intesi nella più ampia accezione del termine.

Le teorie di riferimento di questi autori che cercano di mescolare in un approccio che loro definiscono multidisciplinare sono la teoria dell’apprendimento come abbiamo detto in quegli anni egemonica sia pure con questa mediazione perché come detto prima in una teoria comportamentista classica non c’è mediazione tra stimolo e risposta. Già solo parlare di atteggiamento come mediazione significa porre un elemento di crisi non lieve rispetto al modello comportamentista. Ma anche la psicanalisi e quindi tutte le dinamiche psicologiche profonde e anche la dinamica di gruppo che all’epoca aveva realizzato soprattutto ad opera di Kurt Lewin e allievi un notevole accumulo di conoscenza. L’idea fondamentale era di distinguete i fatti, le opinioni e gli atteggiamenti, intendendo i fatti come evento esterno, osservabile, la realtà delle cose; le opinioni qualcosa che il soggetto è disposto a verbalizzare e quindi ad esplicitare in termini lessicali, verbali di presentazione della propria posizione; l’atteggiamento è qualcosa di più implicito che funziona da motore per l’acquisizione delle informazioni e per la successiva modifica del comportamento. Un problema che gli studiosi dovettero affrontare avendo assunto questa ottica di tipo sperimentale fu il problema della generalizzazione. Gran parte dei loro risultati sperimentali sono stati condotti in laboratorio con una forte attenzione ad individuare quale variabile dovesse essere sottoposta a verifica, facendo questo con la classica procedura sperimentale che conoscete. Si individua una variabile, si creano almeno due gruppi che sono uguali per tutti tranne per la variabile che chiameremo appunto variabile indipendente e se si verificano degli effetti a valle tramite i quali si può imputare questa differenza alla variabile indipendente.

La classica situazione sperimentale della scuola di Yale è la misurazione di un atteggiamento con le scale di atteggiamento, somministrazione di un messaggio di un certo tipo o di un certo contesto e rimisurazione dell’atteggiamento immediatamente dopo o a distanza di tempo. In questa costruzione la sperimentazione è il mezzo più idoneo perché permette di individuare con esattezza la variabile indipendente e l’effetto. Crea però un problema quando vogliamo estrapolare i risultati di un esperimento rispetto alla realtà generale che non è limitata a quelle variabili, ma nella quale entrano tantissime altre variabili che sono di contesto e che possono inficiare la generabilità di questi risultati. Complessivamente il lavoro della scuola di Yale lavora intorno a quella che è diventata una massima di obbligo per quelli che si occupano di comunicazione ovvero le 4 W che poi sono diventate 5 successivamente: chi dice che cosa a chi e con quali effetti. Occorre verificare che cosa succede esaminando singolarmente queste caratteristiche del processo. La fonte, se vi ricordate il modello lineare di cui abbiamo parlato nella prima lezione. Che cosa a seconda della variazione delle caratteristiche della fonte, prima fra tutte la credibilità, l’autorevolezza, il prestigio della fonte, il fatto di percepirla come più o meno informata. Soprattutto, però, le caratteristiche del messaggio come possibile variabile causativa rispetto alla persuasione e quindi se sia più o meno efficace presentare o non presentare le contro argomentazioni, per convincere è più giusto che io presenti solo il mio punto di vista o che presenti anche il punto di vista opposto? Potrei correre il rischio di far venire delle idee alle persone contrarie a quelle che invece io gli voglio dare. Però se non lo dico alla persona nel momento in cui acquisisce l’informazione da un’altra fonte posso perdere l’effetto di persuasione.

E se devo mettere due argomentazioni devo porre prima quella favorevole o quella contraria? Tutta una serie di variabili relative alla costruzione del messaggio e che sono state esplorate in una grande quantità di studi che hanno messo a verifica le diverse possibilità. In che misura il messaggio può avere effetti diversi a seconda delle caratteristiche del destinatario. L’ultimo anello della nostra catena. Quindi le sue motivazioni ma anche le sue capacità cognitiva, di elaborare in maniera più o meno approfondita il messaggio che io gli sto dando. Per esempio, nel caso di un’argomentazione unilaterale o bilaterale, è stato dimostrato che è più efficace un’argomentazione bilaterale solo con le persone che hanno una maggiore capacità di elaborazione cognitiva quelli che sono culturalmente più preparati è più efficace ai fini persuasivi un’argomentazione di tipo bilaterale. Ed infine le caratteristiche delle risposte che possono essere di tipo persuasivo superficiale oppure profondo, persuasioni di breve o di lunga durata. Se questo è stato il contributo della scuola di Yale in cui uno degli elementi principali è questa idea della mediazione dell’atteggiamento, in questa prospettiva lo sviluppo più interessante è quello che avverrà nell’ambito della stessa teoria degli atteggiamenti a partire dalla cosiddetta svolta cognitiva. A partire da quando autori che hanno sempre lavorato anche se in maniera più sotterranea nel periodo del predominio comportamentista, hanno poi fatto procedere e diventare maggioritaria l’opinione che questa mediazione dei processi mentali è qualcosa di estremamente importante, con cui bisogna fare i conti. Citiamo autori come Festinger che hanno messo in evidenza il fatto che il messaggio viene memorizzato ed elaborato dalle persone in funzione delle altre conoscenze precedenti che le persone già possiedono e che quindi gli atteggiamenti non possono essere considerati come qualcosa di singolo, puntualmente definibile in maniera singolare ma che debbono essere studiati in quanto insieme di atteggiamenti, coerenza di atteggiamenti, in quanto appunto sistema.

Questa è quindi quello che definiamo la mediazione degli atteggiamenti, l’altro grande filone importante sul quale si è lavorato nell’ambito di quelle che definiamo le teorie degli effetti limitati sono le influenze personali. A partire dal lavoro di Lazarsfeld, un metodologo in senso stretto che ha lavorato a lungo sulle tecniche di analisi multivariata applicate alle scale di atteggiamento per cercare di comprendere il funzionamento dell’atteggiamento, ha scoperto il flusso di comunicazione a due fasi cioè che la comunicazione ha un suo effetto passando attraverso l’interazione, la mediazione di un leader di opinione o comunque di un contesto di interazione sociale dentro cui l’individuo porta le informazioni che ha ricevuto da i mezzi di comunicazione di massa e li rielabora insieme agli altri. Questo modo di concettualizzare non solo l’influenza sociale e la persuasione ma proprio il rapporto conoscitivo con la realtà è appunto è un modo squisitamente psicosociale che tiene conto di come l’altro entri nello spazio di interpretazione e di conoscenza che ciascuno di noi si struttura. L’ultima famiglia di teorie è quella che va sotto il nome di usi e gratificazioni. Le persone, contrariamente a quella percezione come abbiamo detto all’inizio degli individui tutti uguali, passivi di fronte ai mezzi di comunicazione di massa, caratterizzano gli individui in veste di portatori di bisogni, di motivazioni che quindi usano pezzi delle comunicazioni in funzione delle proprie esigenze, delle proprie disponibilità e capacità per cui occorre fare i conti di questo rapporto di influenza a rovescio perché ci sono gli individui con i loro bisogni che condizionano la qualità e il tipo di offerta fornita dai mezzi di comunicazione di massa.

Il punto di arrivo del nostro percorso, le teorie che più delle altre sono etichettabili come teorie di carattere largamente cognitivo che vanno sotto la rubrica di teorie sociologiche della communication research e che hanno un fortissimo contenuto di tipo psicologico sono appunto le teorie degli effetti a lungo termine. Tra le più importanti troviamo la teoria dell’agenda setting (McComb e Shaw 1972), che ha il potere di costruire l’agenda delle cose importanti. Prima ancora di dirci che cosa dobbiamo pensare dei fatti del mondo, il ruolo potente dei media in termini della costruzione della conoscenza condivisa in sede di costruzione del consenso è quello di dirci a che cosa dobbiamo pensare e cosa sia importante rispetto ad altro. Vediamo come certe tematiche all’improvviso diventano più importanti di altre, non si parla che di un certo argomento, che certi argomenti nella stampa sono molto in secondo piano. Tutto questo determina una potenzialità, un supporto a quella necessità cognitiva da parte del sistema mentale di risparmiare risorse cioè i media si pongono come ausilio al processo di risparmio di risorse cognitive che abbiamo visto essere uno dei problemi fondamentali del trattamento delle informazioni. La seconda famiglia di teorie va sotto il nome di teorie della coltivazione (Gerbner e coll. 1971,1977) si applica in particolare alla televisione più che alla stampa con l’idea che i media sono in grado di coltivare, di far crescere tutta una serie di atteggiamenti e di rappresentazioni della realtà. Esiste quindi uno scarto tra la realtà oggettiva e la sua rappresentazione e queste rappresentazioni siano un processo di socializzazione. La coltivazione è una teoria della socializzazione ed in un certo modo torna, c’è questa oscillazione dei media molto potenti sul lungo termine, capaci di allevare di coltivare una specifica modalità di socializzazione e un ricorso specifico a schemi interpretativi di un certo tipo.
Un’altra teoria molto importante è quella che va sotto il nome di spirale del silenzio (Noelle Neumann 1973,1984) secondo la quale gli individui hanno come motivazione fondamentale quella di non sentirsi esclusi dal proprio contesto e quindi la minaccia principale che può essere fatta alle persone è quella di isolarli e allora le persone per non sentirsi isolate tendono a non esprimere quelle opinioni che percepiscono essere minoritarie nel proprio contesto sociale in cui certe opinioni vengono messe a tacere e quanto più sono messe a tacere tanto più nessun altro si sentirà autorizzato a pronunciarle. Ecco che questo silenzio si allarga a spirale su alcune idee mentre altre divengono maggioritarie. Tutto questo per ribadire un concetto fondamentale che attraverso i mezzi di comunicazione di massa con una serie di meccanismi che ciascun autore ha interpretato in maniera specifica ma che sostanzialmente stanno intorno ad un’idea fondamentale che è questa: i media sono un ausilio fondamentale alla costruzione delle nostre rappresentazioni sulla realtà e che è questa la loro importanza fondamentale e questo appunto il legame tra lo studio degli effetti dei media e l’approccio psicologico che più ci interessa da vicino.