Che significa essere “ignoranti”

di Eduardo Saturno

Che significa essere “ignoranti”?
Tutti siamo ignoranti: la differenza è che le persone di buon senso lo sanno, gli altri no. Al di fuori dei professori di fisica c’è molta gente che sappia descrivere la teoria della relatività? In grado di suonare Schönberg? Di apprezzare il poeta arabo Omar Khayyàm? Di discutere i quadri di Hyeronimus Bosch? Di capire i dialetti berberi? Di seguire il percorso delle costellazioni? Ovviamente no: l’ampiezza dello scibile umano è tale che sette vite non basterebbero per una superficiale infarinatura. Gli uomini rinascimentali non esistono più, quindi sono scomparsi i pittori capaci anche di progettare canali e disegnare macchine volanti, come Leonardo, o i filosofi che erano anche ingegneri aereonautici e architetti, come Wittgenstein.
Tutti siamo istruiti: la democrazia ateniese ha funzionato per secoli sulla base di un’assemblea popolare in cui la stragrande maggioranza dei partecipanti era analfabeta. Quasi tutte le cariche pubbliche venivano attribuite per sorteggio, nei processi erano cittadini comuni a giudicare. Oggi ricordiamo Pericle, Tucidide e Aristotele ma questo straordinario esperimento di potere del popolo creò una civiltà che è ancora oggi alla base del nostro pensiero politico. La parrhesia, l’abitudine al parlar franco, il diritto-dovere di intervenire sugli affari pubblici, educavano più e meglio di quanto possa fare oggi una laurea in Scienze Politiche.
Tutti siamo ignoranti: nessuno verrà rimproverato perché ignora quanto è lungo il Nilo oppure perché non sa da quale musical proviene Empty Chairs at Empty Tables; la canzone tratta da Les Misérables e interpretata da Michael Ball però ci commuove e apre una finestra sui sentimenti dei francesi sulle barricate di Parigi, mentre avere un’idea del corso del Nilo (6.650 km) può aiutarci a comprendere il dramma dell’acqua e delle carestie in Africa, una realtà che praticamente ogni giorno compare sui giornali.
Tutti siamo istruiti: purtroppo chi ha avuto un’educazione formale prolungata fino all’università e oltre tende a dimenticare che la scuola non è l’unica agenzia educativa/diseducativa. Da tempo, la società dello spettacolo ha adottato una pedagogia dell’ignoranza e fa concorrenza con successo alla scuola e all’università.
Non è semplice (e appare molto snob) cercare di capire se davvero gli ignoranti sono oggi più di ieri e se questo abbia delle conseguenze: forse sono semplicemente diventati più visibili e arroganti. Purtroppo, il disinteresse e perfino il disprezzo per l’istruzione aumentano e occorre convincersi che questo fa danni, non solo al Paese ma anche a chi sceglie la strada del minimo sforzo: oggi, se si vuole difendere la propria qualità della vita, è più prudente avere qualche nozione di matematica, storia e geografia, oltre che del funzionamento dei sistemi pensionistici e in generale delle istituzioni democratiche, se non vogliamo trovarci nei pasticci quando sui giornali si discute della missione militare in Afghanistan, delle “manovre” per risanare il bilancio o delle elezioni anticipate.
Oggi a scuola molti studenti si chiedono non solo a cosa serva la matematica (“Ci sono le calcolatrici, no?”) ma anche a cosa servano la poesia o la musica (“Vogliamo studiare cose pratiche”). E’ vero, si può vivere benissimo senza poesia: circa 60 milioni di italiani lo fanno, se si guarda alle tirature dei libri di Luzi, Caproni o perfino Montale. Possiamo adorare il nostro compagno di vita senza aver mai letto Leopardi o Tennessee Williams ma sono certo che sarà più felice chi legga i versi in cui un poeta è stato capace di dare una forma perfetta a questo sentimento.
La risposta a chi si dice indifferente alla cultura è che l’esistenza di chi studia con passione, e con fatica, è più ricca, più appassionante, più soddisfacente di quella di coloro che ignorano il patrimonio lasciatoci da 3000 anni di storia. Lo scrittore canadese Howard Engel, colpito da un ictus, perse di colpo la capacità di leggere ma decise di reagire: “Non potevo smettere di leggere, non più di quanto potessi fermare il mio cuore. (…) L’idea di essere tagliato fuori da Shakeaspeare e da tutti gli altri mi lasciava annichilito. Avevo costruito la mia vita sulla lettura di tutto ciò che era a portata di vista”. Le tecnologie oggi ci aiutano: i software di lettura ad alta voce sono ormai inseriti in ogni lettore di e-book, ma li utilizzeranno solo coloro che condividono la passione di Engel per la pagina scritta. Poter godere di ciò che Lewis Carroll, Leonardo, Mozart ci hanno lasciato non ha prezzo perché ci rende umani, una convinzione che Dante espresse 700 anni fa: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”? Il solo fatto che in qualche modo sia oggi utile rispolverare questa abusatissima citazione del poeta fiorentino è la miglior prova della situazione in cui ci troviamo.
Tra le giovani generazioni serpeggia una pericolosa illusione, quella di non dover imparare più niente, perché la cultura viene gentilmente offerta già confezionata sotto forma di pagine Wikipedia. Basta cercarle e scaricarle. L’italiano è sarebbe anch’esso superfluo perché esistono i correttori ortografici che si prendono il disturbo di correggere gli errori. Purtroppo nulla potrebbe essere più falso.
Oggi consideriamo perfettamente normale diplomarsi, e magari laurearsi, senza sapere granché di storia, geografia o educazione civica. Molte lauree danno l’illusione di offrire un accesso più facile al mercato del lavoro, ma i giovani che le conseguono saprebbero poi orientarsi nei conflitti etici e politici di una società dove non esistono più punti di riferimento solidi? Come deciderebbero in un referendum sul nucleare, sull’acqua pubblica, sul testamento biologico? Non c’è cittadinanza senza comprensione delle forze che modellano le nostre vite, delle ideologie dominanti, dell’atmosfera socioculturale in cui siamo immersi.
La capacità di orientarsi si nutre in parti eguali del rapporto con l’eredità delle generazioni passate e della pratica del confronto con altri uomini: non è immaginabile alcuna libertà senza cultura; è solo questa che dà all’uomo ciò che le oligarchie non possono comprare, né ottenere con la forza. Non può esserci libertà senza pensiero critico, salvo accontentarsi della libertà dei servi.
In questa accezione, cultura non significa un’accumulazione di dati (stili, autori, luoghi) ma capacità di capire e di fare. E’ un rapporto con pratiche sociali che arricchiscono la vita: essere capaci di suonare il pianoforte, accudire un giardino, tradurre un brano dal greco, commentare Shakespeare, ma anche sapere dove va l’economia, decifrare un discorso politico. Un sapere socratico, non enciclopedico.
Oggi, in una democrazia scettica verso i ragionamenti razionali, e avvelenata da retoriche incendiarie, il riferimento all’etica e a un ideale di interrogazione critica può apparire sorprendente: abbiamo dimenticato che in tutta la cultura classica, da Platone fino a John Dewey e Benedetto Croce, questo rapporto era visto come ovvio. Il poeta latino Orazio congratulava un amico perché non cedeva alla “contagiosa febbre di guadagno” ma si occupava di questioni scientifiche: “quali leggi moderino il mare, cosa regoli l’alternarsi delle stagioni, se le stelle si muovano errando spontaneamente o spinte da una forza esterna”. Anche duemila anni dopo studiare, “cosa regoli l’alternarsi delle stagioni” sarebbe forse utile per capire i danni dell’effetto serra, un fenomeno che solo un terzo della popolazione americana crede causato dall’uomo .
John Dewey scriveva negli anni Venti che il fine ultimo dell’economia non dev’essere la produzione di beni, ma la produzione di esseri umani liberi in condizioni di uguaglianza, un’affermazione che nel mondo di oggi appare a molti come una bizzarria, una stravaganza di invecchiati hippies californiani. L’educazione è diventata addestramento, un training arido e unidirezionale per farci imparare “qualcosa di utile” da spendere nell’economia globalizzata.

Fonti bibliografiche
AAVV, Regina Pecunia, Centro Studi “La permanenza del Classico”, Bologna 2009
Daniel Bell, The Cultural Contradictions of Capitalism, BasicBooks 1996.
Christopher Lasch, The Revolt of the Elites, W.W. Norto, New York 1995; trad. it. La ribellione delle élite: il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 1996.
Mauro Magatti, La crisi e il futuro del nostro modello di sviluppo, disponibile qui: http://www.aclimilano.com/portale/documenti/la_natura_della_crisi1.pdf
Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, Parma 2010.
Oliver Sacks, L’occhio della mente, Adelphi, Milano 2011.
Michel Serres, Eduquer au XXI siècle, Le Monde 05/03/2011, consultabile su: http://www.lemonde.fr/idees/article/2011/03/05/eduquer-au-xxie-siecle_1488298_3232.html
Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Roma – Bari 2010