L’accordo sulla produttività voluto da governo e Confindustria, accettato da Cisl e Uil ma non dalla Cgil, non fa chiarezza sulle rappresentanze sindacali e rende il contratto nazionale più debole
La lettura del testo definitivo dell’accordo sulla produttività proposto da Confindustria in data 16 novembre 2012 (Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia) per la firma da parte delle varie organizzazioni imprenditoriali e sindacali delle imprese e dei lavoratori induce preoccupazione e sconforto, tanto esso appare vacuo per quello che dice e per quello che non dice.
Gli anni trascorsi dal famoso protocollo sottoscritto il 23 luglio 1993 si vedono tutti, come si notano i passi indietro fatti dalle parti sociali rispetto alla prospettiva nell’ambito della quale si muoveva quel patto, da un lato il rientro dall’inflazione, dall’altro l’avvio dei due livelli di contrattazione e la volontà di introdurre modalità di partecipazione sostanziale entro le imprese anche mediante – ma non solo – meccanismi retributivi premianti. Il rientro dall’inflazione non è certo oggi il tema rilevante – mentre all’opposto vi è quello della deflazione. Ma quello dei modelli contrattuali e delle modalità di partecipazione lo dovrebbe essere di certo se ci si propone di affrontare la questione del declino della produttività (Antonioli, Pini, 2009). Leggendo il testo non sembra proprio questo il caso.
Andiamo, con ordine, le cause del declino, le proposte per affrontarlo, e gli effetti possibili.
1. Le cause del declino.
Quali sono le cause della stagnazione della produttività e del declino nella sua crescita?
Il testo d’intesa proposto richiama con forza i fattori esterni all’impresa, chiamando altri soggetti (il Governo in primis) ad intervenire per la loro soluzione. La carenza di infrastrutture, i costi dell’energia, della logistica, dei trasporti, che impongono tutti costi materiali alle imprese che ne abbassano la produttività o ne rallentano la crescita, a cui si aggiungono i costi immateriali altrettanto importanti quali la burocrazia, le carenze di sicurezza e legalità, il basso livello di istruzione.
Ben poco si dice invece su fattori sui quali hanno prima responsabilità le imprese e l’insieme delle parti sociali con le quale le imprese firmano accordi nei processi negoziali di primo (nazionale) e secondo (aziendale e territoriale) livello. Non sembra sufficiente un generico richiamo agli investimenti per l’ammodernamento dei macchinari e in ricerca e sviluppo per l’introduzione di innovazioni di prodotto e di processo, quando invece il tema è quello dell’innovazione tecnologica ed organizzativa interna alle imprese, delle nuove tecnologie di produzione basate sulle ICT, dei nuovi disegni organizzativi dell’impresa e del lavoro e delle nuove pratiche di lavoro, della complementarità di questi fattori che rende moltiplicativo il loro impatto sulla produttività (Leoni, a cura di, 2008; Antonioli et al., 2011). Queste sono aree principali di intervento delle imprese, sulle quali proprio le imprese hanno rallentato i loro investimenti nell’arco degli ultimi 15 anni, come le statistiche internazionali (Ocse, Eurostat) e nazionali (Istat) attestano profusamente in termini assoluti e comparati con altri paesi industriali. Il documento d’intesa rimanda ad altro nella individuazione dei fattori alla base del declino della produttività, ed evita di entrare nel merito di quei fattori su cui le imprese hanno la principale responsabilità per i sotto-investimenti fatti. Alcuni di questi neppure sono citati nel documento e ciò attesta in modo disarmante la mancanza della necessaria consapevolezza circa i risultati che la ricerca economica ha raggiunto da più di dieci anni. Un documento sottoscritto da tanti economisti ed operatori italiani già nel 2006 richiamava la loro importanza invitando parti sociali e Governo a implementare un serio Patto sociale sulla produttività e la crescita. Se non si individuano questi fattori come centrali nella spiegazione del declino, e non li si affrontano di conseguenza, non è certo evidente come possano scaturire quegli incrementi di produttività a cui poi le retribuzioni dei dipendenti dovrebbero essere collegate La crescita delle retribuzioni rimarrà solo un miraggio, il costo del lavoro per unità di prodotto proseguirà nel suo trend di crescita, e non vi saranno opportunità di aumento della domanda interna basata sui consumi delle famiglie.
2. Le proposte per affrontarlo.
La proposta di accordo tra le parti sembra in fondo avere una duplice finalità. Da un lato quella di rispondere positivamente alla richiesta del Governo il quale è disposto a concedere una riduzione della tassazione sul lavoro solo sulle quote variabili delle retribuzioni a condizione che le parti si impegnino nel legare le stesse ai risultati economici delle imprese, in primis ad indicatori di produttività aziendale. Dall’altro quella di ribadire l’autonomia delle parti nella sfera delle materie contrattuali, e decidere come e quando introdurre meccanismi di collegamento tra retribuzioni e risultati economici nell’ambito della contrattazione collettiva.
Nel quadro dell’obiettivo di ridurre il carico fiscale sul lavoro e sull’impresa, le parti sociali firmatarie del documento chiedono che vengano incrementate e rese certe e facilmente accessibili tutte le misure fiscali e contributive volte ad incentivare la contrattazione di secondo livello che collega parte della retribuzione al raggiungimento di obiettivi definiti, quali quelli di produttività, di qualità, di redditività, di efficacia, di innovazione, di valorizzazione del lavoro, di efficienza organizzativa e altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività del settore produttivo. In particolare:
1) applicare in modo certo e stabile la detassazione del salario di produttività, introducendo una imposta pari al 10%, sostitutiva di Irpef e addizionali, da applicare sui redditi da lavoro dipendente fino a 40.000 euro lordi annui;
2) applicare la normativa sulla decontribuzione del salario di produttività (legge 247 del 2007) sino al 5% della retribuzione contrattuale.
A fronte di tali specifiche richieste, le parti sociali si impegnano affinché il legame tra retribuzione e risultati d’impresa siano definiti dal secondo livello di contrattazione con l’obiettivo principale di accrescere la produttività d’impresa. In particolare si prevede quanto segue:
a) il contratto collettivo nazionale di lavoro deve prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materie e delle modalità che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività, quali la disciplina delle prestazioni lavorative, gli orari e l’organizzazione del lavoro.
b) i contratti collettivi nazionali di lavoro possono prevedere che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla negoziazione di elementi retributivi da collegarsi agli incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello, beneficiando così delle misure di detassazione e decontribuzione previsti per il salario di produttività (in assenza di contrattazione di secondo livello, tale quota è previsto che sia mantenuta come componente strutturale nel primo livello);
c) la contrattazione di secondo livello deve disciplinare quanto ha fra gli obiettivi quello di favorire la crescita della produttività aziendale. Inoltre si prevede che le parti sociali in tema di partecipazione dei lavoratori dell’impresa mantengano la prerogativa di intervento mediante la contrattazione collettiva e che il Governo anche in materia di partecipazione agli utili ed al capitale debba esercitare la delega prevista dalla normativa in materia subordinatamente ad un approfondito confronto con le parti sociali; al contempo si ritiene utile avviare un confronto sull’azionariato volontario dei dipendenti anche in forme collettive.
3. Gli effetti possibili.
Costituisce l’accordo proposto, con gli impegni in esso annunciati, uno strumento valido per conseguire l’obiettivo che ci si propone, ovvero la crescita della produttività e della competitività? Secondo noi no, non lo costituisce, anzi potrebbe produrre effetti nella direzione opposta.
Anzitutto lo strumento fiscale previsto, per come esso è congegnato, potrebbe facilmente tradursi solo in uno spreco di risorse pubbliche (annunciate in 1,600 miliardi di euro, e portate a 2,150 miliardi di euro) per incentivare contratti di secondo livello che prevedono unicamente un legame nominale tra retribuzione e risultati, ma per nulla sostanziale, costruendo una autostrada ad accordi “cosmetici” che ben poco hanno di variabile e che quindi non incidono sulla produttività. In questa materia gli accordi cosmetici sono ben noti non solo nella letteratura economica, ma soprattutto nella pratica della negoziazione sperimentata dal 1993, verificati già dal 1997, dopo 4 anni di sperimentazione nel nostro Paese (Pini, 2001). La pratica della decontribuzione e delle eventuale detassazione del salario variabile, in assenza di procedure verificabili e condivise del legame tra premi ed indicatori, induce comportamenti collusivi tra le parti. L’esperienza italiana non appare neppure confermare che l’intervento normativo fiscale accresca in modo significativo la diffusione della contrattazione di secondo livello, che è diminuita negli ultimi dieci anni.
In secondo luogo, la proposta non appare articolare il legame tra retribuzione e risultati economici così come le ricerche economiche suggeriscono. Non definisce in modo appropriato la natura del legame, che si potrebbe pensare – in assenza di un dettaglio adeguato – definito in modo tradizionale secondo schemi di incentivazione dello sforzo lavorativo se non anche di suddivisione del rischio d’impresa, associando la retribuzione alla produttività aziendale od alla redditività. Schemi che hanno tale natura si sono dimostrati inefficaci nel determinare una crescita della produttività complessiva, ed a volte hanno anche indotto comportamenti collusivi tra le parti, se non fraudolenti; la loro incentivazione fiscale è stata eliminata dalle legislazioni di paesi che l’avevano inizialmente adottata. Al meglio si basano su una concezione dell’impresa fordista, che non è il modo più innovativo di concepire l’impresa oggi dove il capitale cognitivo è il core del processo produttivo; al peggio strizzano l’occhio a modelli manageriali che tendono a spostare il rischio di fare impresa sul singolo lavoratore, garantendo peraltro premi alle fasce manageriali anche nei casi di non raggiungimento degli obiettivi. A fronte di tale suddivisione del rischio, non si introduce alcun sistema di partecipazione alle strategie d’impresa, si accenna solo a scambi informativi o consultivi che poco hanno a che fare con modalità di partecipazione diretta o indiretta dei dipendenti, avendo come riferimento modelli esistenti come quello tedesco o quelli di alcuni paesi nordici. Peraltro, l’innovazione tecnologica, l’innovazione di prodotto, quella sulla organizzazione dell’impresa, i processi formativi, di valorizzazione e responsabilizzazione delle risorse umane, il disegno dei luoghi di lavoro e dell’organizzazione del lavoro nell’impresa ed ai suoi confini sempre meno definiti ex-ante, costituiscono gli indicatori (input) a cui collegare le retribuzioni variabili collettive e di gruppo, come la letteratura economica più avveduta suggerisce (Albertini, Leoni, a cura di, 2009; Antonioli, Mazzanti, Pini, 2010), piuttosto che indicatori di output produttivo – siano questi di prodotto per ora lavorata, di qualità standard della produzione, di redditività aziendale – in quanto ritenuti poco adatti per attivare un percorso virtuoso tra salari e risultati economici. In più il testo introduce lo spostamento dell’istituto dell’equivalenza delle mansioni dalla norma di legge alla contrattazione collettiva, spostamento che comporta una potenziale riduzione nella protezione del lavoratore nei confronti del rischio che un cambiamento nella organizzazione del lavoro comporti una riduzione delle sue mansioni (demansionamento). È difficile aspettarsi che così concepito lo strumento di crescita della produttività mediante la via delle retribuzioni flessibili conduca a conseguire l’obiettivo dichiarato, semmai la produttività continuerà a ristagnare se non declinare, e le retribuzioni aumenteranno (poco) solo in ragione di comportamenti collusivi tra le parti, oppure in ragione del permanere di forme non concorrenziali sul mercato del prodotto che conferiscono potere di mercato ad un numero limitato di imprese. In questi casi i lavoratori dipendenti non godranno di grandi vantaggi dal legame tra retribuzione e risultati d’impresa, mentre in qualità di consumatori pagheranno sotto forma di prezzi più alti per beni e servizi, e in qualità di pagatori certi di imposte contribuiranno alla copertura degli oneri collettivi degli incentivi fiscali.
In terzo luogo, si prospetta uno spostamento significativo della contrattazione collettiva dal livello nazionale a quello aziendale o territoriale, senza peraltro prevedere alcuna forma di garanzia circa la questione assai controversa della rappresentanza e rappresentatività delle parti firmatarie e non firmatarie degli accordi.
Sul primo aspetto non possiamo non rimarcare che istituti contrattuali così genericamente definiti, che passano dal primo livello al secondo livello di contrattazione solo perché si afferma che vanno ad influenzare i risultati d’impresa, aprono la possibilità di un’ulteriore riduzione del ruolo del contratto nazionale verso quello aziendale o territoriale. Inoltre, il fatto che si preveda in caso di presenza del secondo livello contrattuale che una quota del salario contrattata sul primo livello possa passare al secondo livello usufruendo dei benefici fiscali implica evidentemente che tale quota perda la sua caratteristica certa per assumere quella incerta in quanto variabile, dipendente dagli esiti produttivi o di redditività dell’impresa. Quindi il salario variabile diviene non parte aggiuntiva, accessoria e complementare, del salario fisso, bensì quota sostitutiva del salario fisso previsto dal contratto aziendale. Ciò appare anche più rilevante appena si ricorda che ancora non trova soluzione appropriata la questione della tutela del potere d’acquisto del salario rimasta aperta con l’accordo quadro sulla contrattazione del 2009, a cui si aggiunge quella dei minimi contrattuali che comunque il contratto nazionale deve salvaguardare. Il sistema di indicizzazione Ipca introdotto nel 2009 già non tutelava il potere d’acquisto; ora con il nuovo testo costituisce il “tetto massimo” di indicizzazione, per cui può succedere che si va anche al di sotto di questo per tenere conto delle condizioni generali dell’economia, del mercato del lavoro, delle condizioni internazionali, ed altro, con un indubbio peggioramento potenziale per il potere d’acquisto del salario dei lavoratori, ed una ulteriore tappa nel superamento degli automatismi contrattuali come voluto – anche se non esplicitato nel testo – dal Governo e da Confindustria.
Sul secondo aspetto, lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva dal nazionale all’aziendale e territoriale accentua la rilevanza della questione rappresentatività delle organizzazioni sindacali, e dei diritti di rappresentanza che hanno le organizzazioni che non sottoscrivono gli accordi e che si vedono escluse dalle successive trattative pur essendo soggetti ampiamente rappresentativi. In questo ambito impegni ad affrontare la questione vengono ripetuti da anni, in incontri formali ed anche in documenti ufficiali sottoscritti da tutte le organizzazioni sindacali, come quello ultimo del 2011 (Accordo interconfederale del 28 Giugno 2011), ma nessuno di questi impegni è stato mantenuto. Nel frattempo si intensificano le azioni di imprese ed organizzazioni sindacali che contrastano con le consuetudini contrattuali, con precise normative di legge, finanche con principi costituzionali. Caso ultimo eclatante è il confronto per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, avviato da Federmeccanica escludendo la FIOM dal tavolo delle trattative. Ricordiamo inoltre che è ancora in vigore il famigerato art.8 della legge 148 del 2011 secondo il quale “sarebbero ammissibili contratti collettivi aziendali e territoriali derogatori sia dei contratti nazionali di lavoro che delle discipline di legge. Una sorta di diritto del lavoro «fai da te», differenziato a livello aziendale e territoriale, sicuramente illegittimo sul piano costituzionale” (Mariucci, 2012), Il documento proposto, invece di affrontare la questione, pospone ulteriormente la ricerca di una soluzione condivisa. Non crediamo sia opportuno che il nodo circa il valore degli accordi, la loro esigibilità, ed i diritti di rappresentanza dei non firmatari possa essere ancora eluso, e rimandato a dopo la sottoscrizione del patto sulla produttività, a meno che non si voglia indurre una escalation nel ricorso ai giudici del lavoro, più di quanto sia avvenuto sinora. La democrazia sindacale è sostanza e non forma del patto di produttività e avrebbe necessità di una definizione contestuale[1].
4. Conclusioni.
In conclusione, il testo proposto non sembra costituire un significativo passo avanti nelle relazioni industriali in tema di modello di regolazione del legame tra retribuzione del lavoratore e risultati aziendali, e neppure costituisce lo strumento potenzialmente adatto per fermare il declino della produttività italiana, invertendone il trend.
In particolare:
1) le carenze nel disegno del meccanismo che lega la retribuzione ad indicatori di risultati economici d’impresa, la focalizzazione su indicatori di output produttivi del tutto tradizionali anziché su indicatori di input centrati sullo sviluppo delle competenze dei lavoratori, sulle innovazioni organizzative entro l’impresa, sul design dei luoghi di lavoro, ecc., prefigura una inefficacia del meccanismo premiante, e quindi una inadeguatezza dello strumento per invertire il trend negativo della produttività e competitività delle imprese, con effetti nulli sulle retribuzioni dei lavoratori;
2) al contempo si realizza una riduzione del ruolo del contratto nazionale a favore dei contratti collettivi di secondo livello, di una riduzione delle tutele e protezione del lavoro in ragione anche della ridotta estensione della contrattazione decentrata a tutte le imprese, infine il rischio che una quota della retribuzione certa fissata col contratto nazionale sia trasformata in retribuzione incerta perché variabile definita a livello decentrato, per cui quell’aumento delle retribuzioni reali auspicata da molti come utile misura per sostenere la domanda interna risulterebbe solo una illusione;
3) infine tutto ciò verrebbe realizzato senza porre in essere regole certe e democratiche sulla misurazione del peso relativo delle diverse rappresentanze sindacali, sulla esigibilità dei contratti sottoscritti, sui diritti dei firmatari e dei non firmatari degli accordi a partecipare alla negoziazione a livello decentrato, estendendo il modello Pomigliano a macchia di leopardo sul territorio nazionale, con prevedibili estensioni dei ricorsi in sede giudiziale sull’insieme delle materie regolate dalla contrattazione collettiva, oltre che sulle specifiche dei premi negoziati a livello d’impresa.
Tale accordo non propone quindi soluzioni avanzate rispetto a quanto vi era già di sbagliato contenuto nell’accordo del 2009 (Accordo quadro sulla contrattazione del 22 gennaio 2009). Semmai esso scriverà un ulteriore capitolo delle difficoltà che incontra la sfera delle relazioni industriali nel nostro Paese, segnate da fattori sia esogeni (la politica) che endogeni (l’economia) che hanno minato la loro efficacia, riducendone lo spazio di intervento ed anche la credibilità. Una occasione persa, ancora una volta, per indirizzare il nostro Paese su un sentiero di crescita virtuosa che distribuisca i suoi benefici sia alle imprese che al mondo del lavoro.
fonte: www.sbilanciamoci.info