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A 30 anni dall’omicidio di Don Cesare Boschin ancora nessun colpevole

Chi ha ucciso don Cesare Boschin? Sono passati 30 anni da quella tragica notte, ma la morte del parroco di Borgo Montello rimane ancora senza colpevoli.

L’hanno trovato legato, incaprettato, con la bocca sigillata dal nastro adesivo, soffocato dalla dentiera. È morto così don Cesare Boschin, prete di Borgo Montello alla periferia nord della provincia di Latina, la notte tra il 29 e il 30.marzo 1995. Un omicidio archiviato in soli quattro mesi, senza mai approfondire la pista dei clan di camorra e del traffico da nord a sud di rifiuti tossici, Ecomamafie appunto!

Un omicidio ancora senza colpevoli, in cui si intrecciano gli interessi dei clan camorristici di Casal di Principe, che proprio in quella zona dell’Agro pontino hanno sversato per anni rifiuti pericolosi.

Ammazzandolo hanno eliminato un testimone scomodo, un prete che ha lottato per ottenere la verità su quella sporca discarica. Don Cesare aveva parlato troppo e preso troppi appunti nei quali annotava i passaggi dei camion sospetti. Trasferito dal Veneto a Borgo Montello nel febbraio del 1956, aveva visto quella zona trasformarsi da terra di vigneti e coltivazioni di cocomeri in una delle discariche più grandi d’Italia. Ai bordi dell’area deputata allo smaltimento dei rifiuti, sorgevano la villa e i terreni della famiglia Schiavone, fondatrice del clan camorristico dei Casalesi. E’ infatti il 1988 quando Carmine Schiavone, poi divenuto collaboratore di giustizia, decide di investire 3 miliardi di vecchie lire per comprare un’area agricola a fianco alla discarica, intestata ad un incensurato Antonio Schiavone. Il sistema di smaltimento utilizzato in provincia di Caserta, a fine ottanta, nella terra dei fuochi, era da applicare anche a Borgo Montello. “Mi diceva Salzillo (nipote del boss Antonio Bardellino, ndr), ai tempi in cui faceva parte del nostro gruppo – spiegò Schiavone nel 1996 – che lui operava con la discarica di Borgo Montello. Da tale struttura lui prendeva una percentuale sui rifiuti smaltiti lecitamente ed in tale struttura lui faceva occultare bidoni di rifiuti tossico nocivi per ognuno dei quali prendeva 500 mila lire”.

Mentre il percolato inquinava il terreno e le falde acquifere, la gente cominciava ad ammalarsi. Il via vai continuo di camion, soprattutto di notte, che trasportavano immondizia proveniente da tutta Italia, avevano insospettito il sacerdote, che annotava tutto nelle sue agende.

Don Boschin e il Comitato cittadino, denunciavano l’inquinamento, chiedendo la chiusura dell’impianto, che al contrario si ingrandiva sempre di più. Cominciarono le intimidazioni e comparvero scritte contro chi stava intralciando quel traffico illegale e redditizio: il prete e il comitato cittadino. La sera dell’omicidio il prete, presagivan qualcosa,  chiese al viceparroco di rimanere con lui nell’appartamento attiguo alla chiesa, ma l’aiutante pensò si trattasse solo di paura dovuta all’età e all’avanzare del tumore, da cui era affetto da tempo.

Con gli inquirenti che seguirono la strana pista di una rapina finita male, improbabile, visto che nella stanza non erano stati rubati soldi e oggetti di valore, a parte le agende con gli appunti di don Cesare, per poi concentrarsi su presunti fatti di droga e frequentazioni degli ambienti gay della zona, che indubbiamente offuscarono l’immagine del prete scomodo. Di camorra non parlò mai nessuno. Nel giro di poco tempo le azioni del Comitato si esaurirono, fino all’archiviazione del caso nel 1999. Due anni dopo, i reperti vennero distrutti con un’ordinanza del tribunale di Latina. Nel 2009 il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, chiese verità e giustizia per don Cesare e nel 2016 il caso è stato riaperto. Purtroppo, senza i reperti andati distrutti, è stato impossibile eseguire l’esame del dna e il fascicolo è finito ancora una volta in archivio, mentre la discarica ha continuato a funzionare, fino al suo esaurimento.

Ma in questi giorni, è tornata alla ribalta, si parla infatti di apertura di un impianto per la produzione di idrogeno dal percolato. Non della bonifica attesa da anni, non una seria ricerca per individuare in quale invaso i fusti tossici sono stati interrati sotto centinaia di tonnellate di rifiuti, ma un nuovo impianto di trattamento dei rifiuti, ora però “green“. Poi c’è il Consiglio di stato che ha recentemente condannato una delle società proprietarie degli invasi ad una bonifica di quegli invasi da cui fuoriesce il percolato.

Mentre l’omicidio di Don Cesare Boschin resta senza colpevoli, continua però a puzzare di immondizia.

 

 

Fonti www.libera.it, Nello Trocchia,  Paolo Bortoletto, Natalia Sclippa

 

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Claudio Pelagallo
Claudio Pelagallohttp://www.inliberauscita.it
Giornalista pubblicista, iscritto all'albo Nazionale dal 1991. Ordine Regionale del Lazio. Ha collaborato come corrispondente con diverse testate: Il Messaggero, Il Tempo, Il Corriere dello Sport, La Gazzetta di Parma. Direttore responsabile Inliberauscita

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