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Pedagogia in gioco, “Non è un’etichetta, è una chiave” – DSA, ADHD e il coraggio di capire

PEDAGOGIA IN GIOCo

Rubrica settimanale a cura della maestra Giorgia Costantini

Alcuni genitori, quando sentono parlare di diagnosi, si irrigidiscono.
Temono che un’etichetta possa marchiare il proprio figlio, che venga considerato “diverso”, meno capace, o peggio ancora: “un problema”.
In realtà, dietro ogni difficoltà c’è una richiesta di aiuto. E ogni richiesta di aiuto, se accolta con rispetto, può trasformarsi in una nuova possibilità.

In questo articolo, proveremo a sciogliere alcuni nodi emotivi e culturali che ruotano attorno alle diagnosi di DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività).
Per farlo, ci rivolgiamo ai genitori che hanno paura di fare il primo passo, a quelli che lo hanno già fatto e si sentono soli, e agli insegnanti che, spesso, si trovano nel mezzo.

Lettera

Cara maestra,
mio figlio frequenta la quarta primaria. È sveglio, creativo, curioso, ma in classe fa molta fatica. Scrive lentamente, dimentica le consegne, si distrae facilmente.
L’insegnante mi ha suggerito di portarlo in un centro per una valutazione, ma io non ce la faccio.
Ho paura di incasellarlo, di rovinargli l’infanzia, di farlo sentire “malato” o “diverso”.
Mio marito dice che si tratta solo di immaturità, che crescendo passerà.
Ma io nel frattempo lo vedo soffrire, sentirsi meno bravo degli altri, arrendersi.
Vorrei capire cosa fare.

Mamma di L.

Cara mamma, cara famiglia, cari docenti,
ricevere il sospetto di un disturbo dell’apprendimento o dell’attenzione non è mai facile.
Coinvolge le paure più profonde: quella di non aver visto, di aver sbagliato, o di non poter “aggiustare” qualcosa che riguarda il proprio figlio.

Ma una diagnosi non è una condanna.
È uno strumento.
È una chiave di lettura.
È un modo per leggere meglio quel bambino o quella bambina che amiamo, per capire come apprende, come funziona, come pensa.

Rifiutare la possibilità di una valutazione significa – spesso in buona fede – costruire intorno al bambino una nebbia: si continua a tentare, si corregge, ci si arrabbia, si cerca di motivare… senza però avere la mappa giusta.

Una diagnosi fatta bene, da un’équipe seria, non è un’etichetta: è una carta di identità invisibile che spiega meglio cosa serve a quel bambino per imparare nel modo a lui più naturale.
Può cambiare il modo in cui lui stesso si vede.
Può ridargli fiducia.
Può proteggerlo da frasi come:

“È intelligente ma non si applica”,
“Non sta mai fermo”,
“È svogliato”,
“Non ha voglia di imparare”.

E può aiutare anche gli insegnanti.
Perché quando si hanno strumenti, si riesce ad adattare la didattica con consapevolezza, senza improvvisare.
Ma… c’è un “ma”: una diagnosi non può sostituire la relazione.

Un docente, di fronte a una difficoltà, non è un tecnico che compila moduli. È, prima di tutto, un osservatore attento.
Ed è proprio questa attenzione che lo porta a farsi domande. Tante. Con umiltà, con dubbi, con fatica. Perché anche per l’insegnante non è semplice segnalare un possibile bisogno.

Ecco perché, prima ancora di ipotizzare un PDP o il supporto di uno specialista, si mette in gioco e si interroga:
• “Ho provato ad ascoltarlo davvero?”
• “Ho modificato il mio modo di spiegare, di proporre, di valutarlo?”
• “L’ho fatto sentire visto, accolto, riconosciuto?”

Ci sono bambini che, con una diagnosi in mano, trovano finalmente un ambiente in cui fiorire.
E ce ne sono altri che, anche senza alcun documento, potrebbero farcela, se solo trovassero adulti capaci di leggere i segnali in tempo.

Quando – dopo averle provate tutte – quei segnali resistono, è un atto d’amore proporre un aiuto.
Un gesto che non limita, ma amplia: aggiunge strumenti, tutele, strategie, speranze.

E i bambini?
I bambini sanno.
Sanno di non riuscire come gli altri.
Sanno che ci mettono il doppio del tempo.
Sanno che il banco a scuola è un campo di battaglia.
Ma non hanno le parole per dirlo.
E allora lo fanno con il corpo, con i capricci, con la rabbia, con la fuga.

Dare loro una diagnosi è dare loro un linguaggio, una spiegazione, una possibilità.
Non è renderli “meno normali”, ma più consapevoli.

✨ Citazione finale

“Quando dai un nome alle cose, le puoi attraversare. Anche quelle difficili.”

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Hai un dubbio, una domanda o un piccolo grande problema quotidiano da condividere?
Scrivimi,
giorgiamaestra@gmail.com

e insieme proveremo a guardarlo con occhi pedagogici.
Ti aspetto nella prossima uscita di Pedagogia in GioCo.

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