Autonomia differenziata perché no! “Autonomia differenziata e Costituzione”

3° contributo

Di Gaetano Azzariti
Professore ordinario di Diritto costituzionale presso la Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza Roma

Vorrei sfatare una convinzione diffusa, quella secondo la quale l’autonomia differenziata sarebbe null’altro che un’attuazione della nostra Costituzione, la realizzazione di quanto scritto nel 2001 nel terzo comma dell’articolo 116.
Un’apparente verità che in realtà nasconde una palese falsità. Come dovrebbe sapere qualunque giurista – ma potrebbe tranquillamente intuire qualunque persona ragionevole – le disposizioni costituzionali non sono monadi staccate l’una dall’altra, ma fanno parte di un insieme. E allora per verificare se il disegno di legge Calderoli, che prova a definire il percorso dell’autonomia differenziata, sia conforme o meno alla nostra Costituzione non basta il rinvio all’articolo 116, III co., è, invece, necessario confrontarlo con il complessivo sistema costituzionale, capire anzitutto se sia rispettoso dei principi fondamentali e del modello di regionalismo che la nostra Costituzione definisce.
Così impostata l’analisi, traspare la vera e più profonda incompatibilità tra la nostra Costituzione, che definisce un tipo di regionalismo che viene chiamato “solidale”, e il disegno di legge Calderoli, ovvero quell’insieme di misure per l’autonomia differenziata che, invece, disegnano un modello di regionalismo di tipo “competitivo” ovvero, come alla fine meglio diremo, di natura “appropriativa”.

Iniziamo col vedere cosa si intende per modello “solidale” di regionalismo. Un modello che non si deduce dall’articolo 116, né – sebbene ne sia presupposto – direttamente in quella parte della Costituzione, il Titolo V, che è dedicata alle Regioni e agli altri enti territoriali. Esso è, invece, chiaramente definito nei principi fondamentali.
In proposito, è utile ricordare come l’intera Costituzione deve essere interpretata alla luce dei principi fondamentali definiti nei primi articoli della nostra Costituzione, sono essi – dirà Costantino Mortati- ad informare l’intera nostra Costituzione, in essi è racchiusa l’idea stessa di democrazia sociale che la nostra Costituzione vuole realizzare. Uno di questi, l’articolo 5, è espressamente dedicato al regionalismo. Un principio certamente innovativo rispetto al sistema preesistente. Supera, infatti, il modello dello Stato unitario, così come definito nello Statuto albertino e poi assunto dalla legislazione postunitaria, che si rifacevano al sistema “accentrato” napoleonico. In Assemblea costituente si abbandonò il modello francese per assegnare, finalmente, un ruolo autonomo agli enti locali territoriali. Fu questa la grande rivoluzione della nostra Costituzione: dallo Stato unitario a quello regionale e delle autonomie.

È nell’articolo 5 che si scolpiscono i tratti e i limiti di questa trasformazione. Si legge espressamente che la Repubblica “riconosce e promuove le autonomie locali”; che essa “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”; che essa “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Quindi certamente un grande spazio ai governi territoriali locali. Pone però una essenziale condizione: quella scritta in un inciso dello stesso articolo 5, dove viene indicato il principio che legittimante l’autonomia, ovvero la preservazione della “unità e indivisibilità della Repubblica”. Un’autonomia che si pone al servizio dell’unità della Repubblica e che ha come fine quello di garantire la solidarietà tra i cittadini dislocati nelle varie parti del territorio nazionale. Come viene chiarito dagli altri articoli fondamentali che vanno letti – come è sempre necessario -“sistematicamente”. Così, l’articolo 3, che stabilisce il principio d’eguaglianza, afferma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religioni, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale, s’intende.
E allora ove si definisse una autonomia che fosse foriera di – o anche solo favorisse le – discriminazioni tra i cittadini della Repubblica, tra un cittadino di una Regione “ricca” rispetto a quello di una Regione “svantaggiata”, questa non solo si porrebbe in contrasto con il principio d’eguaglianza ma non sarebbe neppure conforme a quel modello di regionalismo che la nostra Costituzione impone.
La giustificazione che viene fornita per negare che il regionalismo differenziato, così come voluto dalle Regioni interessate e dalla normativa in via di realizzazione, sia incompatibile con i principi costituzionali, quello d’eguaglianza in specie, è quella che rinvia alle garanzie che deriverebbero dalla.individuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, gli ormai i famosi LEP, che dovrebbero essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Sul punto mi limito a due rapide considerazioni. Anzitutto vorrei rilevare che i Lep rappresentano solo la garanzia “minima”. La nostra Costituzione è più ambiziosa e stabilisce, all’articolo 2, che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo,sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Dunque, tutti i diritti inviolabili dovrebbero essere garantiti nella loro pienezza e su tutto il territorio nazionale. Questo è il compito che si affida alla Repubblica, che si conforma come uno specifico “dovere inderogabile di solidarietà politica, economica e sociale”. Si tratta di fare il massimo di sforzo per garantire il diritto nella loro completezza e non soltanto i livelli essenziali.
Ma – e questa è la seconda e decisiva considerazione – c’è un altro fattore che incrina persino quella lettura minimale che dice che è sufficiente garantire i livelli essenziali delle prestazioni.

Il nostro Parlamento con una normativa confusa e in continua mutazione – previsioni contenute dentro commi della legge finanziaria, con rinvii a deleghe dai principi e criteri direttivi di natura puramente procedurale, tramite atti normativi e regolamentari diversi tra loro scoordinati – sta provando a definire un iter per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui si deve dubitare la sua conformità a Costituzione e che non sembra in ogni caso sia in grado di assicurare il risultato di garantire i diritti civili e sociale neppure per i profili “essenziali”. Vediamo meglio.
Anzitutto è da rilevare come si sia sostanzialmente esonerato il Parlamento, nonostante la nostra Costituzione, all’articolo 117, stabilisce invece che i livelli essenziali delle prestazioni sono sottoposte ad una riserva di legge, cioè sono di competenza esclusiva del Parlamento.
Si è persino esclusa la responsabilità collegiale dell’intero Governo. Le decisioni, infatti, non vengono assunte in Consiglio dei ministri, bensì demandate ad una “cabina regia”, presieduta dal presidente del Consiglio ma, su delega di questo, anche solo dal ministro per gli affari regionali, composta da pochi ministri e da alcuni altri soggetti interessati. Insomma, ad una struttura snella, creata ad hoc, cui spetta il compito di definire entro un anno tutti i livelli essenziali delle prestazioni. Se ciò non succederà sarà nominato un commissario. Si impone quindi una forte accelerazione. Ma la questione di fondo diventa: con quali garanzie per la corretta individuazione dei Lep e poi, soprattutto, con quali sicurezza che si consegua il loro effettivo rispetto?
Due considerazioni sono sufficienti per rispondere alla domanda posta e per spiegare l’improprietà del tutto.

La prima è la seguente. La determinazione dei LEP è un’operazione di fatto molto complessa, lo dimostra la non felice vicenda dei LEA – i livelli essenziali di prestazioni in materia sanitaria – che pur essendo stati definiti non danno sufficienti garanzie. Questa è anche una delle ragioni per cui per ventidue anni – dal 2001 – non si è proceduto alla regolamentazione dei Lep. Sarà pur vero che parte della “colpa” è da assegnare al Parlamento, ma un’altra parte è legata alla complessità della.determinazione di livelli essenziali delle prestazioni. Una questione delicatissima sia politicamente sia dal punto di vista tecnico. Ora, quel che non è stato fatto in ventidue anni lo si vuol fare con una accelerazione assoluta nel giro di un anno, con atti sostanzialmente emergenziali e molti dei quali di dubbia costituzionalità.
Ma è la seconda osservazione che a me sembra decisiva. Vorrei proporla nei termini più semplici, quasi banali, (ma poi basta leggere l’art. 117 per trovare la risposta puntuale alla domanda che ora genericamente vi proporrò). Vorrei chiedere se qualcuno può pensare sia sufficiente “determinare” (cioè capire quali sono) i livelli essenziali di prestazioni, per far sì che questi siano anche “garantiti”?
Buon senso dovrebbe far ritenere che bisognerebbe preoccuparsi della determinazione soprattutto al fine di assicurare che tali diritti siano poi effettivamente garantiti, soprattutto nei territori con minori possibilità economiche e più carenti di strutture adeguate. È necessario cioè quantomeno prevedere la copertura delle spese necessarie per poter far sì che dopo questa determinazione sia assicurata anche la tutela.
La sicura risposta a questo interrogativo la troviamo in Costituzione, la quale scrive (art. 117, II co, let. m) che lo Stato – anzi il Parlamento con legge – deve determinare i livelli essenziali delle prestazioni affinché essi possano essere garantiti su tutto il territorio nazionale (“Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: (…) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”). La determinazione non è fine a se stessa, ma serve per permettere la garanzia che è il principio costituzionale inderogabile. È abbastanza banale constatarlo.
E qui emerge il vero problema della normativa che si vuole approvare, tutta tesa alla sola “determinazione” ma per nulla interessata alla necessità di assicurarne i diritti. E la dimostrazione è data dal fatto che tutto ciò è operato a invarianza finanziaria. Dunque, disinteressandosi delle conseguenze che si dovrebbero trarre per assicurare l’effettività della tutela.
Se si volessero concretamente garantire i livelli essenziali di prestazioni, si dovrebbe anzitutto guardare alla situazione reale. Non quella delle Regioni più ricche, non tanto in Veneto, dove è possibile e forse anche probabile che i livelli essenziali possano essere effettivamente assicurati, ma nelle Regioni più svantaggiate con minor capacità fiscale e con più scadenti servizi sociali. Partiamo da lì perché è soprattutto in quelle parti del territorio nazionale che si deve assicurare il rispetto effettivo dei LEP. Ma poi quel che bisognerebbe riconoscere è che se si vuole assicurare su tutto il territorio nazionale una effettività nei diritti c’è oggi bisogno di una massiccia redistribuzione delle risorse, a favore delle Regioni più penalizzate, come chiaramente disposto dall’articolo 119, V co. della nostra Costituzione, andando in un senso esattamente opposto da quello verso la quale stiamo marciando.
Questa autonomia differenziata si caratterizza per una forte volontà di “appropriazione” delle risorse scarse da parte di alcuni a scapito di altri. Qualcuno ha scritto che si tratta di una “secessione dei ricchi”. E in effetti non può essere considerato un caso che le tre Regioni che finora hanno stipulato delle pre-intese sono tre Regioni del Nord che possono ritenersi “ricche”. Ma, in ogni caso, il problema dal punto di vista del rispetto dei principi costituzionali è ancora un altro: bisogna prima garantire una equa redistribuzione delle risorse e rimuovere gli squilibri economici e sociali tra
Regioni per poi, eventualmente, attribuire ulteriori funzioni ad alcune di esse.
Funzioni, peraltro, che devono essere esercitate secondo i principi indicati dalla nostra Costituzione.
Scrive l’articolo 118 che le funzioni amministrative attribuite alle Regioni (ma anche ai comuni, alle province, alle città metropolitane, persino quelle dello Stato) sono esercitate “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza”. Mi soffermo, per semplicità, soltanto sull’ultimo principio indicato, quello di “adeguatezza”. Esso riflette l’idea del regionalismo solidale proprio della nostra Costituzione. Questo è lo strumento individuato per assicurare il massimo dei diritti – ex art. 2 – a tutti su tutto il territorio nazionale, tenendo conto delle specificità territoriali. Adeguatezza proprio perché è evidente che la maggiore tutela dei diritti fondamentali può essere assicurata in modo differente a secondo delle peculiarità del territorio. Solo un esempio: nelle piccole isole ci possono essere problemi specifici per poter assicurare il diritto alla salute o all’istruzione diversi da quelli nelle grandi metropoli. Ad esempio, se non ci sono ospedali o scuole bisogna garantire i trasporti rapidi e gratuiti per raggiungere la
terraferma. È questo il modo adeguato ad assicurare i relativi diritti.

Il disegno di legge Calderoli, assieme alle altre leggi collegate, sembrano invece esprimere una mera volontà di “appropriazione” di funzioni amministrative come fonte di un accrescimento dei poteri, a prescindere dai riflessi sui diritti. Perché infatti una Regione dovrebbe aspirare ad acquisire tutte le materie possibili. Ci si potrebbe chiedere, ingenuamente, che interesse può avere una Regione a vedersi attribuita persino la materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia”?
Qual è l’interesse regionale per una materia di fatto non regionalizzabile. Qualcuno pensa veramente che vi sia una possibile qualificazione autonoma nella gestione delle politiche della produzione del gas? Più semplicemente si vuole solo impossessarsi di queste funzioni, di questi poteri, perché in tal modo i c.d. “governatori” (i presidenti delle Regioni) avranno molte più risorse da gestire direttamente finendo per avvantaggiarsi rispetto ad una equa distribuzione delle risorse essenziali dei beni (l’energia, nel nostro esempio) che può essere prodotta e promossa solo a livello centrale.
Una regionalismo “appropriativo”, dunque. Di appropriazione di poteri, più che di materie. Acquisire potere attraverso la gestione diretta ed esclusiva di funzioni amministrative da parte dei governanti locali. Un grande centralismo regionale dei “governatori” – così oramai vengono chiamati i presidenti della Regione – a scapito dei diritti di tutti, delle Regioni con meno risorse, degli stessi altri enti territoriali infraregionali. Ma anche a scapito di un’idea di regionalismo di natura solidale, il cui esercizio autonomo delle diverse funzioni si legittima in rapporto alle caratteristiche del proprio territorio per meglio garantire il diritto di tutti i cittadini. Ora, invece, si desidera semplicemente appropriarsi di poteri per garantire i diritti soltanto ai propri corregionali. Una dimensione che è molto lontana dalla nostra Costituzione. Non mi sembra che il disegno che viene portato avanti sull’autonomia differenziata rappresenti un’attuazione costituzionale, è invece un’modifica della forma di Stato in grado di trasformare la nostra democrazia costituzionale. Non in meglio.

 

Fonte libro:  https://www.carteinregola.it