di Valentina Falduto
Scrittrice italo cubana, partigiana e voce di Radio Bari durante la resistenza, Alba de Céspedes è stata anche una giornalista che ha saputo portare lucide testimonianze sul suo tempo e una donna che ha anticipato umori e insofferenze che sarebbero venuti alla luce solo molti anni dopo.
L’oggetto di questa recensione è la sua opera “Nessuno torna indietro”, pubblicata nel 1938 dalla casa editrice Mondadori e che valse all’autrice il Premio Viareggio nel 1939; premio che, purtroppo, le venne tolto nello stesso anno per motivi politici.
Ciò che permea tutto il romanzo, a simbolo del cambiamento che ci si trova a vivere quando si abbandona la vecchia vita per una nuova, è la metafora del ponte; “E’ come se fossimo su un ponte; siamo già partite da una sponda e non siamo ancora giunte all’altra. Quella che abbiamo lasciato alle nostre spalle nemmeno ci voltiamo a guardarla, quella che ci attende è ancora avvolta nella nebbia. Non sappiamo cosa scopriremo quando la nebbia si dissiperà. Qualcuna si sporge per meglio vedere il fiume, cade e affoga; qualcuna, stanca, si siede in terra e resta lì sul ponte; le altre, quale bene quale male, passano all’altra riva”.
Quello che l’autrice ci offre è la storia di otto ragazze che, tra il 1934 e il 1936, si trovano al collegio Grimaldi di Roma: ciascuna con il proprio bagaglio di vita e, soprattutto, con un segreto che verrà svelato nel corso della vicenda.
È attraverso di loro che la de Céspedes affronta varie e importanti tematiche di tipo sociale, familiare, politico e sentimentale: vediamo Milly, studentessa di musica che si trova lì perché i genitori vogliono allontanarla dall’uomo che ama. Poi abbiamo Emanuela la quale, a causa di una figlia avuta fuori dal matrimonio e affidata a un collegio vicino al Grimaldi, vi si trasferisce per poterle stare vicino. E ancora Silvia, una giovane donna che spera di riuscire a emanciparsi grazie allo studio; Valentina e Anna, amiche fin dall’infanzia ma che, a un certo punto della loro vita, si innamoreranno dello stesso ragazzo. C’è poi Vinca, fuggita dall’Andalusia a causa della guerra civile e che proprio a causa di quella guerra rischierà di perdere il suo amato Luis.
La più grande del gruppo è Augusta, che da tempo tenta di diventare scrittrice mentre in ultimo c’è Xenia che, non essendo riuscita a laurearsi, fa una scelta di vita molto particolare.
Questo intreccio complesso e avvincente procurò all’autrice un grandissimo successo fin dalla prima edizione; quello stesso successo, tuttavia, le causò ben 17 convocazioni da parte della commissione per la censura fascista. Fu solo grazie all’intervento del suo editore che il libro non venne ritirato; Mondadori fece, infatti, credere che quelle ancora in circolazione fossero solo eccedenze di magazzino e non nuove edizioni. I suoi sforzi furono tuttavia resi vani nel 1943, anno in cui uscì la prima trasposizione cinematografica dell’opera (per la regia di Alessandro Blasetti) e che costò alla de Céspedes l’obbligo di censurare parte del testo.
Sono molte le ragioni per cui, ancora oggi, è importante leggere questo e altri romanzi di Alba de Céspedes: una tra tante è che quest’opera ci dà la possibilità di vedere la società degli anni ’30 e ’40, una società in cui per la prima volta sono le donne a trovare le parole per definirsi, lontano dalla bocca e dalle orecchie maschili.
“È bello discorrere così, tra noi tutte donne; se ci fosse un uomo non oseremmo essere sincere. Io non saprei esserlo nemmeno con mio padre…Anzi, con lui meno che con gli altri. Le donne sono sincere soltanto tra loro, non è vero? Quando papà esce di casa, la mamma ed io usiamo un’altra voce, chissà perché ma c’è sempre una certa ostilità verso l’uomo”.
Nel corso dell’opera l’autrice mostra come la società bigotta e chiusa del suo tempo vede e giudica le protagoniste “A casa ormai, non si può più tornare. I genitori non dovrebbero mandarci in città; dopo, anche se torniamo, siamo cattive figlie, cattive mogli. Chi può dimenticare di essere stata padrona di sé stessa?
Per i nostri paesi aver vissuto sole in città vuol dire essere donne perdute.”
Un’ altra delle tematiche trattate, e che rende questo romanzo così interessante, è quella del rapporto genitori/figli; tematica che, oggi come all’ora, fa molto discutere.
“Noiosi i genitori vecchi; se ai legami affettivi che il tempo logora non subentrasse il senso del dovere, che rapporti ci sarebbero ancora fra la vita nostra e la loro? Chi li sceglierebbe, cosi diversi da noi? Neanche per amici li vorremmo”.
La vita lontana dalla famiglia e dai rispettivi luoghi di origine fa capire alle protagoniste del libro che non è il focolare domestico e l’accudimento altrui ad appagarle; ciò che desiderano è la libertà di scegliere quale sarà il loro destino, per quanto le loro scelte, a volte, vadano contro la morale e la religione dell’epoca in cui vivono.
Oltre al grande debito di gratitudine delle donne verso l’impegno politico e sociale di Alba de Céspedes, ciò che appare fin troppo chiaro, leggendo quest’opera, è la necessità di portare avanti la sua lotta (come quella di tante altre prima di lei) al fine di raggiungere una vera parità di genere.
Questo romanzo, erroneamente ascritto al genere rosa al momento della pubblicazione, presenta uno uno stile chiaro, conciso, mai pesante (nonostante, nella parte iniziale, l’intreccio sia un po’ complesso a causa della necessità di presentare contemporaneamente numerose protagoniste) e con dialoghi verosimili.
Le tematiche trattate ci fanno, infine, comprendere la grandezza dell’autrice e la validità di un’opera che dovrebbe essere annoverata tra i classici della letteratura e, perché no, rientrare tra le letture scolastiche.
Leggendo più volte le interviste all’autrice e ascoltandola parlare della sua epoca e delle sue esperienze – nei pochi filmati che fortunatamente sono giunti fino a noi – ci si ritrova a chiedersi: dove sono, oggi, donne di questo calibro?