HomeApprofondimentiL'Editoriale: I danni dei processi di privatizzazione nei servizi pubblici

L’Editoriale: I danni dei processi di privatizzazione nei servizi pubblici

di Claudio Pelagallo

A partire dagli anni novanta è stato avviato in Italia il processo di liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione dei servizi pubblici. Pur riconoscendo l’esistenza di pessimi esempi di gestioni pubbliche, caratterizzate dal fallimento dovuto, spesso, alle pratiche clientelari della politica, l’idea di liberalizzare i servizi pubblici parte dal discutibile presupposto che il privato sia, in ogni caso, migliore del pubblico e che la concorrenza sia l’unica soluzione per i problemi di incapacità gestionale. I sostenitori di queste tesi ritengono che il sistema pubblico non sia in grado di rendere moderna e flessibile la gestione dei servizi e che, senza lo stimolo del mercato, non ci possa essere efficienza. Date le croniche difficoltà in cui versa la finanza pubblica, spesso viene affermato che le ingenti risorse da investire per il necessario ammodernamento degli impianti rende indispensabile un intervento dei privati. Questa tesi è smentita dall’evidenza dei risultati negativi ottenuti con le liberalizzazioni. D’altro canto non si comprende perché il pubblico, (che potrebbe anche decidere di non avere utili da un servizio), non possa agire, se necessario, con altrettante pianificazioni innovative per gli investimenti, riuscendo (al contrario del privato) a distribuire in modo più equo il carico dei costi di tali interventi, in parte sulla fiscalità generale ed in parte sulla tariffa del servizio, con un occhio rivolto alle categorie più deboli.

Le offerte al ribasso, da parte delle imprese, per vincere le gare hanno come conseguenze quelle di colpire i diritti sindacali, le tutele e le garanzie, i salari dei lavoratori oltreché la scarsa qualità dei materiali utilizzati. Le privatizzazioni degli ultimi anni, che avrebbero dovuto generare una sana concorrenza, l’abbassamento delle tariffe, il miglioramento della qualità dei servizi, hanno raggiunto il risultato opposto. Il caso Acqualatina, uno dei casi emblematici di privatizzazione di un bene pubblico primario e vitale come l’acqua. Dall’inizio di questa esperienza, il servizio non ha subito miglioramenti, le bollette sono notevolmente lievitate fino al 90%, la dispersione della rete si aggira, per stessa ammissione della società, attorno al 60%. La parte pubblica, pur avendo la maggioranza, non decide nulla, ha solo il compito di ratificare i bilanci, gli aumenti delle tariffe e ripianare i debiti.

E’ evidente che il privato antepone all’efficacia dei servizi la massimizzazione dei profitti, tendendo a risparmiare sugli investimenti, sulle manutenzioni, sulla manodopera, con ricadute negative sulla qualità del servizio e per le tasche degli utenti e determinando disastrose ricadute sociali. Occorre, quindi, una riappropriazione sociale dei beni comuni e dei servizi primari e il referendum dello scorso giugno, con il no alle privatizzazioni dell’acqua e dei servizi pubblici locali, ha detto con chiarezza qual’è la volontà degli italiani. Le amministrazioni pubbliche, se ne sono capaci, devono dimostrare di saper governare il bene pubblico, svolgendo quel ruolo di corretta gestione a garanzia del conseguimento del bene delle comunità per conto delle quali sono chiamate ad amministrare.

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