“Café de Flore”, una riflessione sul dramma della separazione

di Federico Caporali

Questa settimana, tra alti e bassi, impennate di puro ottimismo, svariati andirivieni e mal di gola ad intermittenza sono riuscito a scegliere un prodotto cinematografico che vale la pena prendere in “esame”. La mia scelta, dapprima, era ricaduta su un film italiano, uno di quelli che vai a vedere perché il nome del regista lo hai già sentito da qualche parte, oppure perché la sorella della cugina di tua cognata ha detto che suo nipote è andato a vederlo e “sì, è proprio un bel film”. Non essendo estraneo a questo tipo di passaparola culturale mi ero convinto ad esaminarlo come si deve. Poi, però, la pioggia di celluloide mi ha colpito in contropiede; un altro film ha fatto il suo ingresso trionfale dall’entrata laterale, un film che ti “ammazza” ogni minuto che passa, un film che trasmette in ogni singolo fotogramma la straniante sensazione di non essere parte di nessun gioco, di essere estranei alla vita anche quando la vita stessa ci ha donato tutto quello di cui abbiamo bisogno per non sentirci “soli” all’interno del nostro ambiente familiare. Taglio corto, sto parlando di “Café de Flore” del regista canadese Jean Marc Vallée. Dopo il grande successo del suo ultimo film “Dallas buyer Club”, alcune sale hanno deciso di rimettere in programmazione anche il precedente. Quello di cui mi appresto a parlare. Il protagonista della storia è Antoine (Kevin Parent), un uomo sulla quarantina che può liberamente dire di avere tutto: una stabilità economica, un buon lavoro da dj, una moglie e due figlie bellissime; proprio come il prologo del film ci vuole far credere: “All’alba dei quarant’anni, Antoine Godin non si è mai sentito in pace con se stesso: in perfetta salute, genitori ancora vivi, innamorato pazzo della donna della sua vita, respira e traspira felicità”. Un giorno, però, Antoine rompe per sempre questo stato di cose e lascia la moglie per una giovane donna, Rose, incontrata per caso. “Intanto”, in una parallela Parigi di quarant’anni prima, ovvero durante gli anni sessanta, troviamo Laurent, un bimbo nato affetto da sindrome di down che, rifiutato dal padre, viene spinto oltre i propri limiti dall’amore immenso di Jacqueline (Vanessa Paradis) madre testarda e tenace che lotta quotidianamente per fare di lui un bambino come gli altri. Solo dopo avere notato gli sguardi altrui e sull’essersi informata sulle prospettive di vita del figlio, Jacqueline decide: “quel giorno, in quel preciso momento, di dare un senso alla sua vita, il suo piccolo Laurent sarebbe diventato vecchio; mattina pomeriggio e sera, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno, sarebbe restata aggrappata al suo sogno”. Il sogno di essere una madre per tutta la vita. Lauren dunque cresce e vive i suoi primi anni frequentando una scuola per “tutti”. Ma è solo quando incontra Véronique, una bambina down come lui che trova il suo luogo naturale. L’amore. Le famiglie dei due bambini, però, metteranno fine a questo legame appena fiorito. Le (due) storie non si incrociano mai, lo fanno solo con il montaggio, solo lo spettatore li può vedere insieme, loro no, non hanno nulla a che fare l’una con l’altra. Questo film, che può vantare un discreto tocco registico ed una suprema colonna sonora, parla della difficoltà di interrompere i rapporti, di cosa viene dopo, di quali e quanti stimoli una persona lasciata sola può trovare durante il percorso. I sospiri di sollievo sono molto rari e sono del tutto sincero quando dico che, seppure questo lungometraggio sia molto coinvolgente, a tratti ho avuto lo stimolo di mollare tutto e abbandonare la visione. Ma continuiamo: la maggior parte della narrazione è intervallata da voci fuori campo che raccontano le (vere) sensazioni degli attori che in quel momento sono presenti sulla scena; in questo modo, lo spettatore, ancora ignaro di quel che verrà, vede che quel “qualcosa” (di bello) viene nascosto dall’oscuro lato della percezione umana. Una percezione di forte disagio che viene sottolineata anche grazie alle molte scene in cui è presente l’acqua, elemento che, seppur nel campo analitico simboleggi la stabilità e il sentirsi protetti da qualcosa, nel film ha un ruolo diverso, quello di complice, di muto servitore di qualcosa di “strano”, di cupo. Di assassino. “Il film di Jean-Marc Vallée è dunque una riflessione sulla difficoltà di certe separazioni che contengono il dolore enigmatico e tragico di un lutto ma, se negate, si risolvono spesso nel rifiuto di continuare a vivere, per sé o per l’altro”. Solo una cosa potrà mettere a posto le cose: raccontarle. E’ chiaro che non stiamo parlando di una commedia. In questo film non si ride ed è stato prodotto con il preciso scopo di non farlo fare. Questo film fa riflettere. E lo farà. Completamente. Non abbiate paura delle vostre sensazioni, quelle, al contrario dei nostri protagonisti, non vi abbandoneranno mai.