Un buonismo vestito da buonsenso “Il mondo al contrario“ di Roberto Vannacci
di Clara Habte
Entrato nel girone dei difensori e detrattori il ciclone di “Il mondo al contrario” (355 pagine – Roberto Vannacci) del generale Vannacci è uno dei protagonisti di questa estate. Nella ribalta dei social e di esponenti partitici che ne hanno fatto il libro dell’estate senza averlo letto e soprattutto senza alcuna intenzione di leggerlo ci lascia basiti. Ma oggi, per fortuna di Vannacci, questo basta per incassare il gettone della popolarità.
Incuriositi dal clamore e dall’esperienza del generale Vannacci leggiamo per comprendere, conoscere e viaggiare con qualcuno che ha sicuramente qualcosa da insegnare invece troviamo pensieri delimitati mascherati da dati, ricerche e diritto.
Manca l’umanità che ci aspetterebbe da chi ha conosciuto molte culture, da chi ha visto con i propri occhi molte situazioni, ha vissuto sulla propria pelle la drammaticità e le gioie semplici della vita.
Essere popolare, pop è certamente un pregio poiché si arriva a molte persone e con uno straordinario consulente di marketing ha fatto più che centro con questo scritto: un banale diario estivo a cult sotto gli ombrelloni.
Non ci tiriamo indietro, lo leggiamo e sul diritto che il generale ha di scrivere ciò che vuole, in ragione dell’art. 21 della Costituzione: la libertà di espressione del pensiero non è un diritto assoluto, riteniamo che debba essere contemperata con altri altrettanto importanti diritti di pari rango costituzionale -come ad esempio, la dignità altrui.
Peraltro, la Costituzione (ex art. 54) pretende espressamente “disciplina ed onore” da chi svolge una funzione pubblica. Il prof.re Saraceni su una nota piattaforma social ha dato ottimi consigli agli studenti di Giurisprudenza e, a tutti noi.
Uno scritto, buono grammaticalmente, di una persona che ha viaggiato e molto nella vita ma con distacco. Rispetto delle culture, delle usanze e costumi di paesi che ospitano, dimenticando che ospite è anche chi accoglie.
La responsabilità dell’autore è anche quella di scrivere per il lettore, il generale -giustamente- inizialmente pensava che lo avrebbero letto poche decine di amici a cui lo avrebbe donato e, forse in qualche presentazione tra conoscenti ci avrebbe ricavato un contributo alla stampa. Il generale avrebbe potuto avere attenzione verso il lettore, se lo avesse fatto avremmo letto anche romanzando pagine interessanti.
In questo 2023, per non citare i tanti libri che trattano di esteri, ne conta uno che se di Afghanistan vogliamo conoscere dobbiamo leggere: “Burqa Queen” della giornalista Barbara Schiavulli, un romanzo necessario.
Il lettore non sempre ha la possibilità di viaggiare oppure documentarsi e, anche nell’epoca della tuttologia e dell’opinionismo chi mette su carta le parole ha la responsabilità di metterci attenzione.
Gli studi scientifici dell’autore prevaricano e purtroppo troppe volte sfociano in populismo e, alle volte, in concetti biechi.
Se nella lettura si incontrano passaggi anche di buonsenso sull’energia, sull’ambiente, ad esempio, si denota una preparazione argomentata; il bisogno di inserire nomi conosciuti per far meglio comprendere i propri concetti fanno sì che l’autore ha perso l’occasione per dare una lettura efficace su argomenti importanti. Il generale Vannacci ha perso l’occasione di diventare un punto di riferimento ma forse l’intento è quello di essere un influencer.
Citare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani senza coglierne l’essenza e spiattellarla a chi non la conosce relegandola a concetti biechi.
Sembra sia necessario per l’autore citare la Costituzione in una conversazione personale a se stesso e, in una immaginaria per rafforzare la dialettica con l’interlocutore per convincerlo delle proprie tesi, consapevole che quest’ultimo non la conosce ma asserisce perché lo sta affermando uno che ha studiato, che ha viaggiato.
Come coloro che in una conversazione devono necessariamente far sapere che sono preparati, quella sorta di narcisismo intellettuale in cui possiamo incappare anche nei migliori bar e assolutamente in quelli peggiori che neanche a Caracas. Solo che alle volte nei peggiori bar può arrivare la battuta efficace di chi ha la terza elementare e risulta esprimere il verbo lucido e lapidario, insomma una soluzione del cosmo con ironia e cosapevolezza.
Leggere concetti privi di humanitas ma uno sfogo di un buonismo mascherato da buonsenso, lascia un amaro nella memoria. Non basta rispettare le culture in paesi stranieri, mangiare ciò che il luogo offre, non bere durante le ore diurne davanti alle persone durante il Ramadan, se ospiti in un paese che lo professa se poi si è semplicistici nell’esporre la difesa del proprio con termini popolari.
Sull’abitare, sulla famiglia le lacune vengono colmate da ragionamento confuso, un minestrone che va a raccogliere consenso di chi non ha strumenti culturali, senso di stato di civiltà.
La sicurezza è il capitolo che lascia interdetti poiché l’autore è protagonista nella vita proprio della sicurezza.
Magari fosse stato un diario di guerra e ci avesse portato in territori che sembrano così lontani ma che con la penna si avvicinano, avesse dedicato attenzione al lettore e raccontato aneddoti di umana solidarietà, non avesse raccontato solo di una telefonata di padroni di una casa di design a Colonia e sull’immediato intervento della polizia solo perché interessato all’architettura per spiegare il senso di sicurezza. Se avesse difeso la categoria con buonsenso nelle metafore ma purtroppo è stato in tanti posti e in nessuno.
I richiami alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, alla Costituzione, al diritto, alle ricerche internazionali non giustificano il ragionamento riportato come se un libro fosse un bar o ristorante. Peccato diventi nelle pagine un uomo qualunque.
Come padre ha la responsabilità di curare e crescere la prole. Non considerare le conseguenze delle proprie opinioni rese pubbliche è un’azione dolosa umanamente. Essere istruiti, competenti e fortunati non crea l’automatismo di non considerare il prossimo, soprattutto, se nell’opinione del diario estivo si cimenta in valutazioni estreme che potrebbero essere smentite dalla vita.
La visione su alcuni aspetti estremamente preparata e con cognizione di causa scrivere come un qualunquista della qualunque sminuisce l’autore in considerazioni limitate da visione ed estrazione scientifica.
Puntuale nella questione climatica e, anche nel ragionamento politico economico, su materie scientifiche che l’autore declina in pensieri per molti versi condivisibili anche da chi, distante culturalmente oppure come chi scrive che sull’argomento si affida agli esperti.
È la lettura umanista che manca e che, mai, mai si mette in dubbio. Uno scritto di getto forse per rivelare inappagamento, testimoniare azioni sociali opinabili e scelte politiche contestabili, una fotografia sociale personale feroce. Uno sfogo alla rinfusa molte volte giustificato dalla cronaca nera.
Peccato il pressappochismo, perché sarebbe stato molto interessante leggere del punto di vista di un generale con tanta esperienza anche su argomenti sociali. Sul diritto all’abitare, ad esempio, se condivisibile l’opzione che rivendica la punibilità di chi non paga la pigione oppure occupa un immobile privato manca totalmente il concetto di bene comune. Nessuna opzione in cui si prenda in considerazione le mancanze istituzionali e il comportamento civico sulle abitazioni di edilizia pubblica. Un unico punto di vista: quello del proprietario, dove il bene privato si confonde con quello pubblico e, di quest’ultimo non ne ha idea e, dire che ce ne sono di articoli di giornale.
Nessuna considerazione sul mondo del lavoro moderno, nessun richiamo all’involuzione contrattuale come chi ha fatto la scelta di una carriera prima degli anni duemila e non ha ben chiara la situazione. Un consiglio ad informarsi perché chi ha figlioli adolescenti o in età universitaria ne avrà a che fare: augurandoci che i neo lavoratori riescano a sopperire coloro che non hanno fatto alcuna obiezione ai co.co.co e qua qua qua fino ad arrivare ad uno stato di sfruttamento più che ad una remunerazione oppure il tirocinio non corrisponde all’insegnamento pratico.
«Sono figlio di una famiglia tradizionale: un padre che lavorava e che spesso non era presente proprio per motivi legati alla sua professione e una madre casalinga che, quasi da sola, si è occupata di tutte le faccende domestiche e ha allevato, cresciuto e seguito me e i miei due fratelli sino alla nostra maggiore età. Come la mia, molte delle famiglie dei miei amici e dei miei compagni di scuola che, felicemente, sono cresciuti insieme a me. Nulla di strano, dunque, perché nella mia situazione si sono ritrovati moltissimi altri giovani che, tra gli anni ‘60 e oggi, hanno condiviso la bellezza di un nucleo familiare tradizionale in cui uno dei genitori, generalmente la madre, si è essenzialmente preso cura della famiglia, anche senza rinunciare al lavoro, e l’altro si è occupato primariamente del sostegno economico pur condividendo, quando poteva, la vita e i bellissimi momenti del focolare domestico».
Quindi? Da dove la necessità di un ‘temino’ sulla famiglia tradizionale. Appurato che per mettere alla luce una creatura occorrano cromosomi maschili e femminili per crescere in serenità un pargolo perché non tenere in considerazione le tante dinamiche della vita che sono anche ben altre. Non citeremo casistiche perché sarebbe riduttivo e questa non è una pagina di un diario d’estate.
La totale mancanza di sensibilità, di visione plurale lascia sbigottiti anche se l’autore menziona casi di minori cresciuti da nonni oppure all’aggiunta della descrizione di quel sentimento camerale in cui il bene della famiglia che ti scegli e che di biologico non ha nessun atomo è messa fugacemente nel racconto a giustificare che il generale ha anche nelle corde queste sensazioni.
«Non sono cittadino del mondo, non ho giurato fedeltà ai diritti, ai partiti, alle ideologie, ai popoli o a qualsiasi altra entità che esuli dal mio concetto di Patria» scrive Vannucci, dimentica d’essere un militare se solo avesse letto “Quando ci batteva forte il cuore” di Stefano Zecchi invece che solo intere enciclopedie per cercare italianità in Bonaparte. Se invitasse a leggere altri autori invece del dio Google.
E ancora, «Basta poi rivolgersi ai maggiori pubblicitari nazionali per scoprire che, in Italia, la bandiera della pace è più popolare di quella nazionale» se per Vannucci non fosse solo un acronimo la parola PACE e, nella contraddizione delle sue parole avesse spolverato il trattato di Schengen.
Un subbuglio di argomenti ripetitivo in cui viene da chiedersi quale concetto di patria debbano avere figlio di genitori con nazionalità diverse e che crescono in un terzo paese come le figlie del generale peraltro che sono italo-romene purosangue.
Interessante sfogliando il libro che l’autore, invece, ha pensato che non sarebbe stato relegato solo alle amicizie: «Ho condiviso con molti amici questa mia intenzione di scrivere e pubblicare un libro che raccontasse i paradossi e le stravaganze dei tempi moderni e la maggior parte di loro mi ha incoraggiato in questo mio sforzo intellettuale chiedendomi contestualmente quali fossero gli argomenti sui quali mi sarei focalizzato. Quando accennavo all’omosessualità e al pianeta lgbtq+++ (spero con i tre + di avere incluso proprio tutti) la reazione era quasi sempre unanime: lascia perdere! “Non t’impelagare in quel dibattito, è troppo fazioso e divisivo…lascia stare! Ti criticheranno, ti additeranno, dimostreranno spregio e disdegno, ti disprezzeranno dal profondo asserendo che sui tu ad istigare l’odio e…a seconda di come tira, rischi pure una denuncia”. Caspiterina – mi dicevo – possibile che tra le tante serie problematiche del pianeta quella dell’orientamento sessuale attragga così tanto la tracotanza dei lettori? In fin dei conti si tratta di gusti, di preferenze, di predilezioni che, proprio secondo la saggezza degli antichi, non si discutono, non sono “disputandum” e quindi non dovrebbero essere né divisivi né refrattari. Una delle persone che stimo e che, in assoluta buona fede, mi consigliava di evitare il problema si è spinto in un’analisi anche interessante e pragmatica: “Vedi” – mi diceva – “pubblicare un libro non è come fare una chiacchierata al bar o impegnarsi in un’animosa discussione: se ti dai da fare per scrivere un testo e lo vuoi mettere sul mercato il primo obiettivo che vuoi raggiungere è quello di vendere o, comunque, di diffondere al massimo la causa dei tuoi sforzi. Non ti conviene, quindi, prendere posizioni su questioni delicate perché rischieresti di escludere a priori una massa di potenziali lettori”». Vannucci l’ha presa la posizione ed ha aggredito la tastiera.
Il capitolo che è un’urgenza dell’autore sull’omosessualità con un excursus storico, letterario di usi ricavandone che «nel mondo antico sembrerebbe essersi realizzata la corretta interpretazione dell’omosessualità che è definita nei moderni testi come “una variante non patologica dell’orientamento sessuale» lo ‘tollera’ ma è forte il richiamo all’ISTAT e ad altri dati. Peccato, anche in questo capitolo, sono le metafore e le raffigurazioni, troppo fazioso. Inoltre, stupisce, quanto l’argomento sia trattato con estrema provincialità senza tenere conto che ad esempio che il Pride è una marcia per i diritti, sarebbe bastato vederne la pellicola e, se a Wikipedia avesse optato per Edmund White. Ad alcune domande che si pone lo scrivente potrebbe trovare risposte in casa: scoprirebbe che i giovani hanno altamente superato la diversificazione sessuale e si accettano per quello che dicono di essere, senza troppi problemi. Questi ultimi sono facilmente riconducibili ai diversamente giovani.
Sul welfare, anche, i ricordi di gioventù prevalgono e di banale rappresentazione di chi ha avuto la fortuna di entrare nel mondo del lavoro prima del duemila e tesi sommarie. Riferimenti fiscali anche puntuali e di ampia geografia senza tenere conto del lavoro della cooperazione internazionale.
Ne “La nuova città” ripete concetti esplicati e per alcuni versi condivisibili senza tenere conto della rigenerazione urbana, di una rigenerazione sociale auspicabile, cadendo nell’ennesima conversazione da bar in cui nel mirino finiscono i single, noti nababbi. Finalmente si leggono, però, richiami internazionali propositivi come nel ciclo dei rifiuti che ha attirato l’attenzione dell’autore peccato non abbia intercettato anche il programma della città dei quindici minuti parigina. Non tenga conto dei fondi europei grazie ai quali nel Bel Paese molte città si stanno trasformando, ad esempio, semplicistico. Troppo.
L’ultimo capitolo dedicato a “L’animalismo” «Ce ne dobbiamo fare una ragione: l’uomo non è uguale alla donna; la bestia non è uguale all’uomo così come un pesce non è uguale ad un mammifero, ad un uccello o ad un insetto: il comunismo cosmico non esiste e il tentativo di teorizzarlo rappresenta un’idiozia globale!».
Una scrittura anche gradevole, ironica e ci auguriamo profondamente provocatoria di un generale stanco e provato che ha sentito la necessità di scrivere un mischione di pensieri sparsi per qualche giorno di ribalta. Se, questo suo mondo contrario aprirà la carriera di scrittore ci auguriamo dedichi del tempo alla revisione, magari quella di un editor o di qualche amico -se non altro non leggeremo pensieri confusi- perché un rappresentante delle Istituzioni ha il dovere di rispettarle. Invece, se l’intento è quello di passare a rappresentante eletto, il guadagno coprirà la lunga stagione di campagna elettorale.
E’ decisamente un dispiacere che nella lettura arrivi sempre il ruolo che dell’autore. Alla fine non è un racconto benché mai un saggio ma solo un dossier di un generale, di un piccolo borghese in una calda e umida estate relegato nel territorio nazionale.
Poche volte una lettura lascia la sensazione di aver perso tempo.
Poteva essere un buon libro invece è un calesse di opzioni da influencer: veloce, fugace, ripetitivo e confusa l’esplicazione. La gatta frettolosa fa i gattini ciechi.
Accogliendo il ringraziamento per avere letto questo scritto, auguro di aver contribuito a raddrizzarlo. Lettura attenta e non davanti ad una birra gelata al bar.
Infine, una curiosità, il testo è dedicato a due donne, forse le figlie: il buonsenso avrebbe dovuto suggerire anche una terza, se non altro per galanteria tradizionale.