“Nessuno è felice. Però non deve essere sgradevole in casa d’altri.”
Comprai la trilogia di Haruf diversi anni fa, nettamente in ritardo rispetto a quando ci fu il clamore e tutto il globo aveva sulla bocca la “Trilogia della Pianura”.
Lessi le prime settanta pagine di Benedizione per NNE edizioni, e lo mollai, non mi parlava quel libro, non mi stava trasmettendo nulla, io non ero sintonizzata su quelle parole.
Accettata la disfatta, ho chiuso il libro e ho posizionato il cofanetto sulla libreria in camera, sotto i miei occhi ogni giorno.
Passano i mesi, le settimane, i giorni, gli anni.
I miei occhi cadono sul cofanetto, dopo qualche giorno sento parlarne in giro, poi sui social ed è stato un attimo, letto, divorato.
Dad Lews è un malato terminale, oramai anziano, con una moglie devota, una figlia ribelle che lo ama e un figlio omosessuale che non vede più da anni, troppi forse è questo il suo cruccio, aver cacciato suo figlio, non essere riuscito a dargli quella benedizione, nell’accettare la sua natura e rimanere rigido rispetto alle emozioni che lo accompagneranno per tutto il libro.
Intorno a Dad e alla sua famiglia, ruotano le persone che vivono a Holt, in ognuno di loro si mescola la vergogna, il rimpianto, la gioia, la tristezza, la mancanza, in poche parole, le umane fragilità.
Haruf ci catapulta nell’imbrunire di un tempo quieto, mosso dalle contraddizioni e dagli umori del disincanto.
Benedizione è l’accettazione di sé e dell’altro come passeggero e compagno terreno, è la promessa che attraverso l’amore tutto si può recuperare e che gli adii sono degli arrivederci intrisi di non detti.
Era questo il momento giusto.
I libri ci chiamano.