“Avevo una madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore.”
Con la Di Pietrantonio ci siamo già interfacciate attraverso “L’Arminuta” e “Borgo Sud”, due romanzi che sia io che molti di voi abbiamo amato.
“Mia madre è un fiume” per Super ET, è il suo esordio, chirurgico, minuzioso, con le descrizioni che ti catapultano esattamente in quel contesto, con i personaggi e i luoghi.
Essere madri non ha un’unica accezione, soprattutto quando si è madri in un epoca post guerra, in cui molte donne lavoravano i campi e i figli si accarezzavano solo nel sonno.
Esperia è la ruvida madre e la figlia è la voce narrante.
Esperia ora è anziana e una malattia invalidanti sta cancellando la sua memoria e piegando le sue mani, le sue ossa. I ricordi che servono per rifugiarci in un’emozione quando ne abbiamo bisogno, servono per guardare i figli e chiedergli scusa se abbiamo fallito come genitori e magari provare a spiegarne il perché.
La figlia sente questa distanza e malgrado la malattia non riesce a trovare un contatto con la mamma. Si ricorda tutto, si ricorda l’amore mancato non per volontà ma per tempo che poi a guardare bene è più o meno la stessa cosa.
Esperia ha avuto a sua volta una famiglia ruvida, cresciuta povera, durante la seconda guerra mondiale e per quanto il passato ci segni, non sempre riusciamo, da spettatori o coinvolti, a mitigare quel senso di rabbia e frustrazione e quindi perdonare.
Essere genitori non è per niente facile.
Essere figli non è per niente facile.