L’esercizio della politica: una questione etica e morale?

di Eduardo Saturno

I discorsi sempre più freque[sg_popup id=”106217″ event=”inherit”][/sg_popup]nti che si fanno da qualche anno nel nostro Paese sulla questione morale ripropongono il vecchio tema del rapporto fra morale e politica. Vecchio tema e sempre nuovo, perché non vi è questione morale in qualsiasi campo venga proposta che abbia mai trovato una soluzione definitiva. Sebbene più celebre per l’antichità del dibattito, l’autorità degli scrittori che vi hanno partecipato, la varietà degli argomenti addotti, l’importanza del soggetto, il problema del rapporto fra morale e politica non è diverso dal problema del rapporto fra la morale e tutte le altre attività dell’uomo. Si tratta in ogni caso sempre dello stesso problema: la distinzione fra ciò che è moralmente lecito e ciò che è moralmente illecito.

Il problema dei rapporti fra etica e politica è più grave in quanto l’esperienza storica ha mostrato, almeno sin dal contrasto che contrappose Antigone a Creonte, e il senso comune sembra pacificamente aver accettato, che l’uomo politico possa comportarsi in modo difforme dalla morale comune, che ciò che è illecito in morale possa essere considerato e apprezzato come lecito in politica, insomma che la politica ubbidisca a un codice di regole, o sistema normativo, differente da, e in parte incompatibile con, il codice, o il sistema normativo, della condotta morale. Quando Machiavelli attribuisce a Cosimo de’ Medici il detto che gli Stati non si governano coi pater noster in mano, mostra di ritenere, e dà per scontato, che l’uomo politico non possa svolgere la propria azione seguendo i precetti della morale dominante, che in una società cristiana coincide con la morale evangelica. Per venire ai giorni nostri, in un ben noto dramma, Les mains sales, Jean Paul Sartre sostiene, o meglio fa sostenere a uno dei suoi personaggi, la tesi che chi svolge un’attività politica non può fare a meno di sporcarsi le mani.
Per quanto, dunque, la questione morale si ponga in tutti i campi della condotta umana, quando viene posta nella sfera della politica assume un carattere particolarissimo. Ciò che non è generalmente in discussione è la questione morale stessa, ovvero che vi sia una questione morale, che in altre parole sia plausibile porsi il problema della moralità delle rispettive condotte. Se mai occorre precisare che, quando si parla di morale in rapporto alla politica, ci si riferisce alla morale sociale e non a quella individuale, alla morale cioè che riguarda azioni di un individuo che interferiscono con la sfera di attività di altri individui e non a quella che riguarda azioni relative, per esempio, al perfezionamento della propria personalità, indipendentemente dalle conseguenze che il perseguimento di questo ideale di perfezione possa avere per gli altri. L’etica tradizionale ha sempre distinto i doveri verso gli altri dai doveri verso se stessi. Nel dibattito sul problema della morale in politica vengono in questione esclusivamente i doveri verso gli altri. L’azione politica è sottoponibile al giudizio morale?
A differenza degli altri campi della condotta umana, nella sfera della politica il problema che è stato posto tradizionalmente non riguarda tanto quali siano le azioni moralmente lecite e rispettivamente illecite, ma se abbia un qualche senso porsi il problema della liceità o illiceità morale delle azioni politiche. Per fare un esempio che serve a far capire la differenza meglio di una lunga dissertazione, non c’è sistema morale che non contenga precetti riguardanti l’uso della violenza e della frode. Le due principali categorie di reati previste nei nostri codici penali sono i reati di violenza e di frode. In un celebre capitolo del Principe Machiavelli sostiene che il buon politico deve conoscere bene le arti del leone e della volpe. Ma il leone e la volpe sono il simbolo della forza e dell’astuzia. In una celebre pagina Benedetto Croce, ammiratore di Machiavelli e di Marx per la loro concezione realistica della politica, svolge il tema dell’«onestà politica», cominciando il discorso con queste parole che non hanno bisogno di commento: «Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica». Dopo aver detto che si tratta dell’ideale che canta nell’animo di tutti gl’imbecilli spiega che «l’onestà politica non è altro che la capacità politica». La quale, aggiungo io, è quella che Machiavelli chiamava «virtù», che, come tutti sanno, non ha niente a che vedere con la virtù di cui si parla nei trattati di morale.
Da questi esempi che si potrebbero moltiplicare sembrerebbe non potersi trarre altra conclusione che quella della impossibilità di porre il problema dei rapporti tra morale e politica negli stessi termini in cui si pone nelle altre sfere della condotta umana. Non a causa delle teorie che hanno sostenuto la tesi contraria, quella cioè che anche la politica sottostà o meglio deve sottostare alla legge morale, ma non hanno mai potuto affermarsi con argomenti molto convincenti e sono state considerate tanto nobili quanto inutili.
La condotta che ha bisogno di essere giustificata è quella non conforme alle regole. Non si giustifica l’osservanza della norma, cioè la condotta morale. L’esigenza della giustificazione nasce quando l’atto viola o sembra violare le regole sociali generalmente accettate, non importa se morali, giuridiche o del costume. Non si giustifica l’obbedienza ma, se si ritiene che abbia un qualche valore morale, la disobbedienza. Non si giustifica la presenza a una riunione obbligatoria, ma l’assenza. In generale, non v’è alcun bisogno di giustificare l’atto regolare o normale, bensì è necessario dare una giustificazione, se lo si vuole salvare, dell’atto che pecca per eccesso o per difetto. Nessuno chiede una giustificazione dell’atto della madre che si getta nel fiume per salvare il figlio che sta per annegare. Ma si pretende una giustificazione se non lo fa. L’unica dottrina politica che non ha bisogno di ricorrere ad argomenti di giustificazione è quella, se mai ve n’è stata una, per la quale la condotta politica non può mai violare la morale per la perentoria ragione che la morale non esiste, o meglio non esiste un sistema normativo diverso o superiore a quello della politica, e non vi è altro sistema normativo che quello politico.
Secondo questa teoria, vi è un solo codice morale, abbia esso il proprio fondamento nella rivelazione o nella natura da cui la ragione umana è in grado di ricavare con le sole sue forze leggi universali della condotta. Ma queste leggi proprio per la loro generalità non possono essere applicate in tutti i casi. Non vi è legge morale che non preveda eccezioni in circostanze particolari. La regola «non uccidere» viene meno nel caso della legittima difesa, vale a dire nel caso in cui la violenza è l’unico rimedio possibile, in quella particolare circostanza, alla violenza. La regola «Non mentire» vien meno, ad esempio, nel caso in cui l’affiliato a un movimento rivoluzionario viene arrestato e gli viene chiesto di denunciare i propri compagni.
Pertanto ciò che appare a prima vista una violazione dell’ordine morale, commessa dal detentore del potere politico, altro non è che una deroga alla legge morale compiuta in una circostanza eccezionale. In altre parole, ciò che giustifica la violazione è la eccezionalità della situazione in cui il sovrano si è trovato ad operare. Giacché stiamo cercando di individuare i diversi motivi di giustificazione della condotta non morale dell’uomo politico, qui il motivo viene trovato non nel presupporre l’esistenza di un diverso sistema normativo ma nell’interno dell’unico sistema normativo ammesso, dentro il quale si considera valida la regola che prevede la deroga in casi eccezionali. Ciò che se mai caratterizza la condotta del politico è la straordinaria frequenza delle situazioni eccezionali, in cui si viene a trovare in rapporto all’uomo comune: questa frequenza è dovuta al fatto che egli opera in un contesto di rapporti, specie con gli altri della medesima specie, in cui l’eccezione viene elevata, per quanto possa essere considerato contraddittorio, a regola (ma contraddittorio non è, perché qui si tratta di regola nel senso di regolarità, e la regolarità di un comportamento contrario non è detto che faccia venir meno la validità della regola data). Anche se può sembrare che la deroga sia sempre vantaggiosa per il politico (ed è proprio questo vantaggio che è stato guardato con ostilità dai moralisti), si può dare anche il caso contrario, se pure più raramente: la deroga infatti può agire estensivamente nel senso di permettere al politico ciò che è moralmente proibito, ma può agire anche restrittivamente nel senso di proibire il compimento di azioni che all’uomo comune sono permesse.
Lungo tutta la storia del dibattito secolare sulla ragion di Stato, accanto alla giustificazione della «immoralità» della politica, dedotta dall’argomento dello stato di necessità, si svolge quello derivato dalla natura dell’arte politica, che impone a chi la esercita azioni moralmente riprovevoli ma richieste dalla naturae dal fine dell’attività stessa. Se vi è un’etica politica diversa dall’etica etica, ciò dipende, secondo questa argomentazione, dal fatto che il politico, come il medico, il commerciante, il prete, non potrebbe fare il suo mestiere senza obbedire a un codice che gli è proprio e che in quanto tale non è detto debba coincidere col codice della morale comune né con quello degli altri mestieri. L’etica politica diventa così l’etica del politico e, in quanto etica del politico e dunque in quanto etica speciale, può avere i suoi giustificati motivi per l’approvazione di una condotta che al volgo può apparire immorale ma che al filosofo appare semplicemente come il necessario conformarsi dell’individuo membro all’etica del gruppo. Si rilegga il brano di Croce già citato, e si vedrà come la considerazione dell’arte politica come un mestiere tra gli altri mestieri non ha perso nulla della sua perenne vitalità. Condannando la comune e, a suo parere, errata richiesta degli «imbecilli» che il politico sia onesto, Croce si lascia andare a profferire questa sentenza: «Laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a un’operazione chirurgica, chiede un onest’uomo […], ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurghi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina o in chirurgia nelle cose della politica si chiedono, invece, non uomini politici [uomini cioè che sappiano fare il loro bravo mestiere di politici, aggiungo io], ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini di altra natura». E continua: «Perché è evidente che le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politico, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, ma non già nella politica». Vorrei richiamare l’attenzione su quell’«improprio», che fa pensare, per contrasto, a una «proprietà» della politica, che non è evidentemente quella della morale.
Una soluzione dualistica non più soltanto apparente ma reale è quella che è passata alla storia col nome di «machiavellica», perché a torto o a ragione vien fatta risalire all’autore del Principe. Qui il dualismo è fondato sulla distinzione fra due tipi di azioni, le azioni finali, che hanno un valore intrinseco, e quelle strumentali che hanno un valore solo in quanto servono a raggiungere un fine considerato esso solo come avente un valore intrinseco. Mentre le azioni finali, chiamate buone in sé, come il soccorrere il sofferente, e in genere tutte le tradizionali «opere di misericordia», vengono giudicate di per se stesse, in quanto azioni «disinteressate», che appunto vengono compiute con nessun altro interesse che quello di compiere un’azione buona, le azioni strumentali, o buone per altro da sé, vengono giudicate in base alla loro maggiore o minore idoneità al raggiungimento di un fine. Ciò che costituisce il nucleo fondamentale del machiavellismo non è tanto il riconoscimento della distinzione fra azioni buone in sé e azioni buone per altro, quanto la distinzione fra morale e politica sulla base di questa distinzione, vale a dire l’affermazione che la sfera della politica è la sfera di azioni strumentali che in quanto tali debbono essere giudicate non in se stesse ma in base alla loro maggiore idoneità al raggiungimento dello scopo. Il che spiega perché si sia parlato, a proposito della soluzione machiavellica, di amoralità della politica, cui corrisponderebbe, sebbene l’espressione non sia entrata nell’uso (non essendo necessaria), l’«apoliticità della morale»: amoralità della politica nel senso che la politica nel suo complesso, come insieme di attività regolate da norme e valutabili con un certo criterio di giudizio, non ha niente a che vedere con la morale nel suo complesso come insieme, anch’essa, di azioni regolate da norme diverse e valutabili con un diverso criterio di giudizio. Appare a questo punto chiaramente la differenza fra una soluzione come quella di cui stiamo discorrendo che è fondata sull’idea della separatezza o dell’indipendenza fra morale e politica, e che in quanto tale si può ben chiamare dualistica, senza attenuazione, e le soluzioni precedentemente esaminate in cui manca o la separazione, giacché la politica è inglobata nel sistema normativo morale se pure con uno statuto speciale, oppure la indipendenza essendo morale e politica distinte sì ma in rapporto di reciproca dipendenza. La soluzione machiavellica o dell’amoralità della politica viene presentata come quella il cui principio fondamentale è: «Il fine giustifica i mezzi». Per contrasto si potrebbe definire la sfera non politica (quella, tanto per intenderci, che si governa coi pater noster) come la sfera in cui è scorretto il ricorso alla distinzione fra mezzi e fini, perché ogni azione deve essere considerata di per se stessa per il valore o disvalore in essa intrinseco, indipendentemente dal fine. Anche se la massima «il fine giustifica i mezzi» non si trova letteralmente in Machiavelli, si considera di solito come equivalente il passo del cap. XVIII del Principe in cui, ponendosi il problema se il principe sia tenuto a rispettare i patti, risponde che i princìpi che hanno fatto «gran cose» ne hanno tenuto poco conto. Risulta chiaro da questo passo che ciò che conta nella condotta dell’uomo di Stato è il fine, la «gran cosa», e il raggiungimento del fine rende lecite azioni, come il non osservare i patti convenuti, condannate da quell’altro codice, il codice morale, cui sono tenuti i comuni mortali. Ciò che non risulta altrettanto chiaro dal passo è in che cosa consistano le grandi cose. Ma già una prima risposta si trova nello stesso capitolo verso la fine dove importante per il principe è «di vincere e mantenere lo Stato».
Una seconda risposta, ancora più chiara e anche più comprensiva, è quella che si trova in un passo dei Discorsi, in cui si celebra spiegatamente la teoria della separazione: «Dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi deve cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che salvi la vita e mantenghile la libertà» L’illustrazione avviene contrapponendo al solo principio che deve guidare il giudizio politico, al principio della «salvezza della patria», altri possibili criteri di giudizio dell’azione umana, fondati rispettivamente sulla distinzione fra il giusto e l’ingiusto, fra il pietoso e il crudele, fra il lodevole e l’ignominioso, che fanno riferimento, se pur da diversi punti di vista, a criteri di giudizio della morale comune.