Il più bel funerale del fascismo si celebra il 25 luglio del 1943 con una grande pastasciutta offerta a tutto il paese distribuita in piazza a Campegine dalla famiglia Cervi per festeggiare.
A raccontare quella prima pasta antifascista condita con burro e formaggio è papà Alcide Cervi: “Il 25 luglio eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio. Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. È festa per tutti”, scrive papà Cervi. È Aldo, il terzogenito, che gli fa la proposta. “Papà – gli dice – offriamo una pastasciutta a tutto il paese”. Alcide accetta. “Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi e dicevo: – Beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica”.
Saranno invece i suoi sette ragazzi a perdere la vita cinque mesi più tardi, il 28 dicembre, anche a causa di quella pastasciutta più potente di qualsiasi manifesto politico.
Quella mattina di 79 anni fa i sette fratelli vengono condotti al Poligono di tiro di Reggio Emilia e fucilati. Il papà Alcide, loro compagno di cella fino a quel 28 dicembre 1943, rimarrà prigioniero fino al gennaio dell’anno seguente, quando il carcere verrà bombardato dagli alleati. Tornato a casa, rimarrà ignaro di quello che era accaduto ai suoi figli per tutti i giorni della sua convalescenza.
Dirà il giorno dei funerali – che si svolgeranno il 25 ottobre del 1945, quasi due anni dopo la loro morte – “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti. I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada”.
Per il suo impegno partigiano e per quello dei suoi figli a papà Alcide sarà consegnata la medaglia d’oro realizzata dallo scultore Marino Mazzacurati, che da un lato reca l’effigie di Alcide e dall’altro un tronco di quercia tra i cui rami spezzati brillano le sette stelle dell’Orsa.
“Mi hanno sempre detto – dirà nell’occasione della consegna – ‘Tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta’. La figura è bella e qualche volta piango. Ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”.
Papà Cervi morirà nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1970 all’ospedale di San Ilario, in provincia di Reggio Emilia.
Le sue esequie saranno un evento nazionale. Oltre 200 mila persone affolleranno le strade e la piazza dell’ultimo saluto. Gli rendono omaggio tutte le grandi personalità della politica e delle istituzioni legate alla storia antifascista, ma anche tanta, tantissima gente comune. Ferruccio Parri lo onorerà con una toccante orazione funebre.
“Alcide – aveva cessato di essere solo Alcide nel 1945, quando era arrivato papà Cervi. Forse nessuno gli ha mai chiesto che ne pensasse di questo cambio d’anagrafe pubblico. Ma lo viveva con la stessa dignità e la consapevolezza che gli consentiva di stare eretto davanti al dolore. La vita di papà Cervi era iniziata a 70 anni. Quando nell’ottobre del ‘45 la storia della sua famiglia varcò per sempre la soglia dei Campirossi per diventare patrimonio pubblico. Fu un altro funerale, a far nascere papà Cervi: la consegna delle spoglie dei suoi sette figli alla loro terra, a Campegine. Nel luogo dove sono ora, a fianco del padre, della madre, morta di crepacuore dopo l’ennesimo incendio della sua casa ad opera dei fascisti, ai quali evidentemente non era bastato ucciderle tutti i figli maschi.
Papà Cervi nasce vecchio, con il cappello e i baffi grigi, con le rughe di vita e di fatica che ne fanno un’icona perfetta per l’Italia che cerca specchi non infranti, tra le macerie della ricostruzione. I nuovi italiani cercano luoghi, biografie, coscienze in cui trovare se stessi. Perché la politica non basta, e nemmeno l’ideologia e la fede. Serve l’anima, per ricostruire. Serve la verità della fatica e dell’umiltà, che solo dalla terra può venire. E la storia di Alcide, Genoeffa, dei suoi figli, delle loro donne e dei loro bambini, è una storia di terra, orizzontale come la pianura dove nasce e resiste, fino alla fine. Papà Cervi nei suoi anni di vita è stato vestito di molte bandiere, alcune cucite apposta per lui. È stato avvolto di molte, forse troppe, parole. Ha portato tutto con la stessa dignità di ogni altra cosa. Come le sette medaglie sul petto dei suoi figli; come il “giubèt” con cui riceveva, a ogni ora, delegazioni ufficiali allo stesso modo delle persone qualsiasi che si fermavano a Casa Cervi”.
Una quercia che ha cresciuto sette rami alla cui ombra, in fondo, ancora cerchiamo riparo un po’ tutti noi.
Nell’anniversario del sacrificio dei sette fratelli Cervi, è nostro dovere morale rinfrescare il ricordo perché la memoria è la nostra unica salvezza contro la terribile possibilità che certe atrocità figlie di orribili dittature possano ripetersi.
Roberto Alicandri