di Eduardo Saturno

Parlare di social network e di privacy nella stessa frase è – secondo il sentire comune – una evidente antinomia nella migliore delle ipotesi. Due concetti inconciliabili, due aspetti opposti che paiono elider[sg_popup id=”106217″ event=”inherit”][/sg_popup]si a vicenda, l’uno necessario a definire i contorni dell’altro, ma, nello stesso tempo, inesistente se esiste l’altro. I social, nostro principale strumento di comunicazione – secondo ISTAT, il 57% degli italiani che hanno usato internet nel 2014 hanno utilizzato servizi di social networking; dati sostanzialmente confermati da Eurostat, che vedono addirittura un 75% di picco nella fascia di età tra i 16 e i 24 anni – amato e temuto quasi nello stesso fideistico modo dai due, soliti opposti schieramenti feudali del “popolo del web”: da una parte, l’ossessione per la privacy – un esempio, mettere il “lock” al proprio account twitter, operazione possibile ma che lo rende, di fatto, inutilizzabile – e la privacy eccessivamente normata, irrigidita nel suo coacervo di regole, a volte complesse, a volte ridondanti, quasi mai inutili; dall’altro, la leggerezza spesso incosciente con cui si pubblica e posta di tutto, del proprio e dell’altrui.
In realtà, l’inconciliabilità è almeno in parte apparente: se è vero che il mondo moderno va verso un superamento del concetto (ottocentesco) di privacy – messa a dura prova dalla società e g o t i s t a -che ha fatto della diffusione del dato, con il selfie una delle sue massime rappresentazioni – non è vero che essa ormai “non c’è più”, e che non possa essere comunque maggiormente tutelata. La riservatezza è questione relativamente moderna: solo verso la fine dell’ottocento è stata teorizzata da due giovani avvocati statunitensi, Warren e Brandeis, in una società, quindi, che cominciava ad avvertire l’esigenza di una tutela rafforzata della propria vita privata, dei propri spazi, delle proprie relazioni. Non sono mancati analoghi spunti in Europa, anche se una teorizzazione vera e propria inizia a prendere corpo solo alla fine dell’ottocento e nella prima metà del novecento.
Sono passati due secoli e mai, forse, come ora la cessione della propria sfera personale vittima, anch’essa di una forma di “baratto” molto lontana dall’idea di sharing economy – per qualche servizio gratuito viene avvertita non solo come normale, ma anche come opportuna. Nessuno si stupisce se nei “termini di servizio che nessuno legge” – e forse per questo nessuno si stupisce – sono contenute cessioni di dati, liberatorie, licenze e ogni sorta di cavillo legale per consentire a quelle stesse società – quelle che ci erogano i servizi “gratuiti” – di utilizzare in tutta tranquillità i nostri dati.

Certo, nel corso degli ultimi anni un atteggiamento a volte troppo disinvolto di alcune di esse ha prodotto reazioni da parte degli utenti: si pensi al caso dell’uso delle immagini a scopo pubblicitario ipotizzato da Instagram, o alle frequenti falle di sicurezza in WhatsApp, con conseguenti migrazioni verso software ritenuti, fino a nuovo ordine, più sicuri. Lasciando da parte ragionamenti molto più strutturati in merito a vicende di cronaca di estrema risonanza, la vera falla di sicurezza resta colui che si trova di fronte allo schermo del device, quella “macchina-uomo” pronta a postare/condividere/pubblicare qualunque azione del quotidiano proprio ed altrui e, quel che è peggio, dei propri figli minori.
Una vera e propria social addiction, di cui spesso si trascura la permanenza delle conseguenze. Eppure, la stessa cronaca è ricca di risvolti anomali collegati a gesti semplici come il post: una elencazione ai limiti del terroristico ci parla di furti in appartamento ad opera di ladri che frequentano i social, ma anche di datori di lavoro che selezionano i candidati dopo aver visionato le loro bacheche online, o che li licenziano per qualche affermazione fuori luogo sui loro profili.
Eppure, non sempre è necessario rivolgersi a professionisti e società che fanno della online reputation il proprio core business; di certo, è fondamentale imparare ad alfabetizzarsi al corretto uso dello strumento e ad una sana riservatezza. Mi sia consentito, una volta ancora: non siamo tecnologici perché possediamo l’ultimo modello di smartphone che ci connette al mondo. Lo siamo se capiamo ciò che facciamo attraverso questi strumenti e, se non capiamo, studiamo per non farci trovare impreparati dal mondo che continua a cambiare. Non è un caso se si parla di alfabetizzazione: è come imparare a scrivere da piccoli, una lettera alla volta, un carattere alla volta, la lettura e la scrittura stentate che si fanno via via più sicure. E’ un imparare da zero che richiede – anche – un atto di umiltà e l’accettazione dei propri limiti. E’ ovvio che il modo migliore per mantenere intatta la propria riservatezza è quello di non comunicare. E’ una voluta estremizzazione che evidenzia come, in qualsiasi modo ed in qualsiasi forma, la comunicazione sia un veicolo di informazioni – a volte involontarie – su noi stessi e sul mondo che ci circonda. Visto che, però, parliamo ed ipotizziamo la vita media di un essere mediamente evoluto – con una serie di relazioni sia offline che online – allora cerchiamo di capire, a grandi linee, cosa e come fare per ovviare alla frequente sovraesposizione connessa all’uso di tali strumenti. Il Codice Privacy italiano – introdotto dal D. Lgs. n. 196/2003 inserisce tra i principi generali in tema di riservatezza quelli di pertinenza e non eccedenza: ecco, forse sarebbe già un ottimo punto di partenza applicare le stesse regole anche al nostro quotidiano. Al di là di quello che potremmo tranquillamente definire “buon senso” – che tale, alla fine, è – ogni social network dispone di sezioni specifiche per il settaggio delle impostazioni di privacy, sezioni che l’utente dovrebbe conoscere e utilizzare, senza fidarsi delle impostazioni di default:
1. Facebook: https://it-it.facebook.com/help/325807937506242/ , con la specifica sezione sui minori https://it-it.facebook.com/help/473865172623776/;
2. T w i t t e r : https://support.twitter.com/articles/20169886-protecting-and-unprotecting- your-tweets tramite la scheda sicurezza e privacy nell’account utente – la cui privacy policy ci ricorda che “sei quello che twitti” e che puoi essere visibile contemporaneamente in tutto il mondo;
3. Linkedin: https://help.linkedin.com/app/answers/detail/a_id/66/~/managing-account-settings;
4. Google+: a parte la guida specifica all’indirizzo https://support.google.com/plus/answer/1047279?hl=it, Google dispone di una dettagliata dashboard all’indirizzo https://www.google.com/settings/dashboard per tutti i suoi servizi, e di una sezione appositamente dedicata ai genitori https:// support.google.com/plus/answer/2409893?hl=it;
5. Instagram: https:// help.instagram.com/116024195217477/, e così via per ogni singolo social network.

Oltre ad impostare lo strumento nel modo più adeguato a tutelare il livello di riservatezza scelto, sarebbe quantomeno opportuno leggere sempre i Termini di Servizio e la Privacy Policy – ora integrata dalla Cookie Policy – per verificare come il servizio si comporterà con i dati che noi gli forniremo, in che modo ed in che caso potrà o dovrà utilizzarli. E non incorrere in brutte sorprese. Basta fare questa semplice verifica per scoprire, per esempio, che la maggior parte dei social network – se non tutti – si auto-concedono – si parla sempre di contratti per adesione, in cui la facoltà di modifica dell’utente è nulla – una licenza permanente e non esclusiva sui nostri contenuti. Possono, così, riutilizzarli senza autorizzazione, ovviamente nei limiti di quanto il contratto con l’utente – e la normativa di riferimento – stabiliscono. La maggior parte dei social network, come sappiamo, non consente ai minori degli anni 13 l’iscrizione al servizio. Tuttavia, l’ostacolo viene regolarmente aggirato dei ragazzini, quando non sono gli stessi genitori ad abituare i propri figli all’uso smodato dei social network sin da piccoli, od attivando loro degli account perché “mio figlio deve essere cool”. Si è deliberatamente utilizzata la parola “smodato”, nel senso che l’uso di cui parliamo non è quello di integrazione dei social network nel quotidiano, ma, al contrario, di filtraggio del quotidiano tramite i social network.

Così, dall’essere strumento di arricchimento della vita, sono i social a diventare – a volte – la vita stessa. Quello che possiamo/dobbiamo fare – ed è un nostro dovere, di genitori ed educatori – è conoscerli, per capire come far sì che il maggior numero di informazioni non necessarie restino sotto il nostro esclusivo controllo. In realtà, il problema è ben più ampio, come è facile intuire dall’ultimo rapporto del Pew Research Centre, secondo il quale gli adolescenti si collegano alla rete per il 91% dal proprio device: un dato che rende di assoluta immediatezza la difficoltà che ha un genitore nell’approccio al problema e quali e quanto siano le tematiche connesse, della quali la privacy è solo una e non necessariamente la più complessa. Della spinosa questione si è più volte occupato il Garante Privacy, sintetizzandone le linee guida in un apposito vademecum dal titolo “Social Privacy. Come tutelarsi nell’era dei social network”, appositamente pensato per la divulgazione al grande pubblico.
Se il Garante si trova costretto a sottolineare che “la dignità della persona e il diritto alla riservatezza non perdono il loro valore su internet”, è pur vero che la tutela della propria sfera privata diviene sempre più difficile nel mondo iperconnesso.
Poche ma fondamentali le tematiche evidenziate dal Garante:
• La permanenza dei dati;
• I mito dell’anonimato;
• La privacy ed il rispetto degli altri;
• I falsi profili;
• Il sexting;
• Le informazioni bancarie e fiscali;
• La cancellazione degli account;
• Le leggi applicabili.
Ma – cosa ancora più rilevante – il Garante sottolinea la necessaria consapevolezza nel postare/pubblicare – mai pubblicare dati che potrebbero essere usati contro di noi – mettendo in relazione i dati da noi forniti all’attività economica che le aziende del settore svolgono proprio utilizzando quei dati.Il Vademecum prosegue con 5 utili schede rivolte, rispettivamente, ai giovani, ai genitori, a chi è in cerca di lavoro, agli utenti esperti ed ai professionisti, contenenti una serie di consigli di indubbio buon senso: un esempio tra tutti, le domande poste ad un ipotetico genitore (hai insegnato a tuo/a figlio/a a riconoscere i segnali di pericolo in rete? Hai mai navigato con lui/lei? Hai chiesto quali fossero gli argomenti più discussi nelle chat che frequenta?, etc…).

Il Garante prova anche a fornire dei suggerimenti pratici sotto forma di decalogo dai titoli eloquenti:
Pensarci bene, pensarci prima;
Non sentirti troppo sicuro;
Rispetta gli altri;
Serra la porta della tua rete e del tuo smartphone;
Attenzione all’indentità;
Occhio ai cavilli;
Anonimato, ma non per offendere;
Fatti trovare solo dagli amici;
Segnala l’abuso e chiedi aiuto;
Più social privacy, meno app e spam.
Partire da qui per capire l’importanza delle “banali” informazioni che si veicolano tramite un social network, forse, sarebbe già qualcosa.
Conclusioni: l’educazione alla rete
Genitori e minori insieme, quindi, anche per il Garante?
Si, ma non sempre: se è certamente vero che, soprattutto per i più piccoli, è necessaria una fase di accompagnamento, è importante che ognuno scelga secondo il rapporto instaurato con i propri figli, in relazione all’età, alla formazione, alla capacità di apprendimento di ciascuno, le modalità migliori per sé. A volte, infatti, produce più frutti un blando permissivismo, di una presenza tanto assidua da divenire soffocante. Molto interessante, in un articolo recente di Dorien Morlin-van Dam pubblicato su Business2Community dal titolo “Tips on navigating Social Media with your teen ”, la teorizzazione di una “age appropriate conversations to have with your child about social media”, con l’individuazione di cosa è opportuno fare in relazione all’età dei propri figli (8-11 anni; 12-14 anni; 15-18 anni); una tabella da tenere d’occhio, forse un po’ restrittiva, ma, a mio avviso, utile per capire quali possono essere i maggiori problemi – ed i comportamenti adeguati – nelle diverse fasce d’età.
Alla base, ovviamente, una consapevolezza della rete “in divenire”, per genitori e figli, che sia s ì tecno-oriented, ma che tenga anche conto della necessità di una formazione deontologica, morale, sociale. Formarsi all’uso dello strumento richiede, sempre, la formazione di base che quello strumento prevede: usare un’auto, guidare, comporta il dovere/obbligo di formarsi al codice della strada.
Lo stesso dovrebbe essere richiesto dalla società a noi ed ai nostri figli, in modo da creare dei cittadini preparati e pronti a raccogliere le sfide future, che certamente saranno impegnative quanto e più di queste.
(Fonte: La rete e il fattore C – Morena Ragone)