“Bisogna lasciar affiorare dalla ferita parole lucide fino allo spasimo. Mostruose, come queste.”
Immersione.
La prima parola che mi suggerisce questo libro è immersione, non perché la protagonista si sia immersa nel Tevere per non risalire più, ma perché l’altra protagonista, Maria Grazia Calandrone con “Dove non mi hai portata”, edito da Einaudi, ha fatto un lavoro di immersione totale alla ricerca di notizie su sua madre Lucia, suo padre Giuseppe, sulla terra da cui provengono, Palata, e sulle emozioni che tutto questo le ha scaturito.
La Calandrone ci aveva già donato un gran libro con “Splendi come vita”, una dedica alla famiglia che l’ha adottata quando Lucia e Giuseppe l’hanno abbandonata a Roma davanti il cancello di Villa Borghese, inviando una lettera al giornale de L’Unità per trovare qualcuno che si occupasse di lei, e si sono ammazzati gettandosi nel Tevere.
In questo libro si approfondisce tutto il corollario che ruota attorno a Lucia, una donna dalla vita travagliata, dolorosa e delicata.
Mi sono spesso chiesta cosa provasse la Calandrone nell’andare a rintracciare ogni minuscola porzione di verità, quanto coraggio e quanto dolore deve aver attraversato, quanta sensibilità nel capire che quel suicidio non si tratta di abbandono ma di un atto d’amore, perché era l’unico(forse) modo per mettere a riparo Maria Grazia.
In queste pagine si racconta la storia di un’Italia degli anni del dopo guerra e degli anni sessanta, quando il tradimento era una questione penale e una questione sociale:”La fiatella sociale imputridisce tutto quello che tocca.”
Quando il divorzio non era ancora una legge possibile e per una donna essere presa a botte dal proprio marito era la normalità.
Dove non mi hai portata, nella coltre di una vita arrangiata, dove l’unica possibilità di vita è stata togliersela quella vita per ri-donarla all’amore della vita.
Dove non mi hai portata, nella superficie liscia delle cose ma la Calandrone è riuscita a levigare ogni cosa.