“L’appeso. Cosa dice? Dice: lasciatemi così.Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro.”
Era dal liceo che non leggevo Calvino, quanto l’ho amato, con il suo saper raccontare la vita attraverso la fantasia, planare leggero sulla superficie profonda dell’umanità e risvegliarti.
Queste sono pagine piene zeppe di fantasia, credo che qui si sia misurato con l’invenzione più che in ogni altra opera.
Il castello dei destini incrociati (Mondadori), è un gioco di creatività, di magia, di inganno e di consapevolezze.
Tutto parte dai tarocchi, un oggetto che nel tempo ho imparato a conoscere, osservare e ascoltare, ma Calvino non rivela il significato letterale dei tarocchi, attraverso di loro costruisce mirabolanti storie che iniziano dentro una taverna, dove nessuno ha più la voce e le parole si sono perse, dunque per dipanare ciò che dentro la psiche e l’anima accade, si trova l’espediente di un racconto costruito sulla base delle immagini che man mano “capitano” svelando le carte dei tarocchi.
Non solo nella letteratura, dove spariglia le carte e ci restituisce un Orlando meno furioso, un Parsifal più in ascolto, un Faust meno affamato, ma la possibilità di andare a rintracciare pezzi di noi sparsi su un tavolo. Quello della taverna, nello specifico.
Un libro apparentemente leggero, che ti spinge a soppesare il ruolo del caso e del suo contrario ponendoti davanti a una serie infinita di quesiti.
È il libro dell’immaginazione, dove tutto è possibile e tutto può essere impossibile, dell’ordinario e dello straordinario che poi non è nient’altro che il mestiere dello scrittore.