Di Michele Russo
A Colle Rotondo, un anno dopo.
Esattamente un anno fa su queste pagine (https://inliberauscita.it/approfondimenti/135080/135080/) pubblicavo un articolo in cui proponevo l’associazione di Colle Rotondo, sito nei confini comunali di Anzio su terreno privato, con l’oppidum di Caenon, noto agli storici per il tramite di Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso ed ubicato in prossimità di Anzio.
Il luogo è accessibile mediante uno stradone sterrato che parte da via delle Cinque Miglia in direzione sud-nord e lambisce il colle. E’ una piacevole passeggiata all’interno della cosiddetta Macchia della Spadellata, uno dei pochi polmoni verdi del territorio anziate finalmente preso in considerazione dall’Amministrazione comunale che nella seduta del Consiglio Comunale del 7 ottobre scorso ha deliberato all’unanimità di “proporre l’istituzione della Riserva Naturale Regionale Macchia della Spadellata e, di concerto con la proprietà del sito, un piano di sviluppo per la tutela, conoscenza e valorizzazione dell’area archeologica di Colle Rotondo, anche attraverso un piano di assetto da chiedere alla Regione”.
SeppurE già segnalato nel 1964 grazie all’individuazione da foto aerea da parte di D. ADAMESTEANU, e a sporadici sopralluoghi negli anni immediatamente successivi, si deve alla cara amica professoressa Stefania Quilici Gigli e al monumentale padre professor Lorenzo Quilici, pioniere della Topografia Antica italiana, la messa in evidenza e l’importanza del sito nel 1984, quando esso era ancora “vergine”, quando cioè l’orografia non era stata drasticamente modificata da inopportuni e maldestri sbancamenti e riempimenti che hanno dato un colpo mortale a un simbolo dell’antica potenza anziate quale era il Caenon. I valenti archeologi, proposero allora di identificare il sito con il “Castrum Inui” oggi identificato alla foce del fiume “Incastro” in territorio di Ardea e oggetto di scavi sistematici che ne stanno riportando alla luce i resti. Il lavoro di Quilici e della Gigli resta comunque fondamentale perché sono gli unici che hanno potuto restituire i profili altimetrici e le foto del sito così com’era prima degli sbancamenti effettuati (i rilievi e la foto in bianco e nero riportati sono tratti dallo studio “Longula e Pollusca, di L. QUILICI e S. QUILICI GIGLI, in “Archeologia Laziale 6”, 1984, pp. 125-127).
Inutile dire che l’attuale interessamento dell’amministrazione comunale è tardivo e inutile; in questo scritto sono interessato a parlare di storia e non di politica che lascio volentieri ad altri. Mi si permetta l’affermazione che questa azione andava fatta nell’84: allora si che ci sarebbe ancora stata la possibilità di salvare un sito archeologico che presentava testimoni che dall’età uluziana andavano fino al medio evo.
Non essendo l’oggetto principale di questo articolo segnalo solo che i reperti uluziani di Colle Rotondo sono stati studiati da esperti internazionali e che le conclusioni da essi raggiunte possono essere lette qui: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0196786
Oggi non c’è più nulla. Gli archeologi delle tre università romane hanno compiuto una decina di anni fa tutti i possibili saggi ed hanno raccolto tutte le informazioni che si sono salvate dallo scempio perpetrato negli anni e che ancora si perpetra. Già, perché Colle Rotondo è un terreno privato piantato a fieno: ogni anno si zappa e si semina; poi si raccoglie e si zappa di nuovo. Anno dopo anno il colle originario che occupava un terzo circa dell’attuale appezzamento di terreno si è abbassato e il terreno prospiciente, in origine più basso, si è alzato; fino a diventare un enorme campo da seminare, pianeggiante, squadrato, che non può assolutamente più assomigliare al sito originario dell’oppidum.
Ma tanto ai portodanzesi che importa, c’hanno la villa de Nerone!
Senza scomodare poeti e scrittori mi viene in mente un verso di una canzone: “il tempo ha cancellato tutto …”; questo dovrebbero scrivere gli attuali amministratori novelli mecenati all’ingresso del parco che hanno in mente di realizzare. E lo scrivo senza nessuna vena polemica ma stando con i piedi per terra.
D’altronde Colle Rotondo non è né il primo né haimé sarà l’ultimo sito archeologico ad essere distrutto per paura dei vincoli, dei casini, degli espropri. La barbarie regna ancora sovrana nel popolo italiano.
Fortunatamente nessuno può vietare a chi ama passeggiare di percorrere il periplo dell’appezzamento di terreno, almeno fino a quando non saranno ripristinate le recinzioni divelte da anni; e allora è facile imbattersi in piccoli “cocci” triturati e fatti emergere dalle zappature, ma sicuramente non in sito originario, stante gli enormi sbancamenti e riempimenti, che all’occhio dell’esperto testimoniano ancora oggi una meravigliosa storia.
Un peso in cotto di una rete da pesca, pezzi di manici di anfore raccontano di un luogo in cui, prima della conquista romana, gli anziati custodivano le attrezzature per la pesca, i contenitori per il commercio marittimo, e vi vivevano stabilmente perché da lì, mediante il fiume – l’odierno fosso di Sant’Anastasio – raggiungevano le navi attraccate a largo perché, come ho già precedentemente dimostrato, Anzio, come Ostia, in quel periodo non avevano il porto – come testimoniato dal geografo Strabone nel 23 a.C. – visto che lungo tutto il litorale dalla battigia marina partiva una palude.
Caenon, infatti, non era il porto ma un oppidum, una piccola città fortificata, dipendente e a servizio della più grande Antium: la città libera che per secoli tenne testa a Roma.