Di Ivana d’Amore*
Penso
In questi giorni d’isolamento collettivo, costretti a stare in casa per le disposizioni urgenti approvate dal Governo atte a contenere il contagio del COVID-19, tutte le attività si sono fermate, siamo come immersi in una quotidianità irreale nell’attesa di autorizzazioni per tornare alla libertà di sempre.
E nel silenzio della mia stanza distesa sul letto con lo sguardo fisso al soffitto, penso ai detenuti e mai come adesso li sento ancora più vicini, sarà per la situazione che sto vivendo in questi giorni ma quel mondo carcerario così lontano e sconosciuto per lo più da molti mi manca.
Penso ai detenuti, alle ansie per le loro famiglie, ai figli che non potranno riabbracciare, alla polizia penitenziaria costretta a turni massacranti per mancanza di personale, ai direttori, ai medici, agli infermieri, agli educatori, psicologi e ai volontari, chi sa quando potremo ritornare in carcere a svolgere i nostri servizi!
Mi tornano in mente le immagini trasmesse nei giorni scorsi dai dai tg nazionali: le urla di rabbia e di dolore delle donne fuori dalle mura delle carceri di Modena, Firenze, Napoli, Bologna, Bollate, Foggia; i poliziotti in tenuta antisommossa; l’agitare dei manganelli degli agenti della polizia penitenziaria, il correre dei detenuti sui tetti degli Istituti di Pena.
La protesta è nata per le decisioni prese dal Ministro della Giustizia Bonafede: sospendere i colloqui con le famiglie e con i volontari.
Si stima che siano stati coinvolti circa 6 mila detenuti rivoltosi, 13 detenuti morti per overdose, 40 agenti feriti, 16 evasi ancora latitanti a Foggia.
E nel silenzio della mia stanza, penso a ciò che non è stato o che poteva essere e penso a ciò che potremmo sperare di poter fare noi volontari con concretezza accanto all’Istituzione Penitenziaria.
Il ruolo efficace del volontario in carcere è ormai da molti anni approvato dall’Ordinamento Penitenziario. L’azione del volontariato è decisiva già dal momento dell’ascolto, della condivisione e del sostegno che si realizza durante i colloqui con i detenuti o dando sostegno alle loro famiglie. Incidendo su questi legami affettivi, si riesce non solo a ridurre gli effetti negativi della detenzione ma ad avvicinare il detenuto alla vita esterna, alla vita sociale.
Addirittura, con la riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 2 ottobre 2018, si riserva al Volontariato un ruolo inedito quale “facilitatore dell’inclusione sociale” attraverso un percorso formativo dal titolo “Volontari per le misure di comunità”. Con tale progetto – in conformità alle direttive europee – s’intende sensibilizzare l’opinione pubblica verso l’accoglienza di detenuti in esecuzione penale esterna. Il principale obiettivo è infondere nel tessuto sociale la fiducia nelle pene non detentive, come l’affidamento in prova ai servizi sociali.
Il senso di queste misure sta nel comprendere che la sicurezza, non è: “buttare le chiavi”, “chi sbaglia paga”, “ammazziamoli tutti”, “la certezza della pena”! Al contrario, essa passa attraverso la possibilità del recupero del detenuto come dettato dall’art. 27 della Costituzione Italiana, che mira alla rieducazione del reo durante il periodo in cui la pena viene scontata.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Avviene così nella realtà? Ossia le pene tendono al recupero del soggetto ed al suo inserimento nel tessuto sociale?
La pena non deve essere contraria al senso di umanità.
Ma cos’è il senso di umanità?
Gli avvenimenti di questi giorni non possono scorrere via come acqua, che almeno ci aiutino a riflettere ancora su queste domande.
*Associazione Vol.A.Re.